venerdì, febbraio 09, 2007

"Genova la superba ama essere guardata dall'alto. L'arrivo in
aereo svela il punto debole della città e la molla di una civiltà
millenaria. Genova è una città fragile, sottile, minacciata. Lunga
quaranta chilometri, larga al massimo ottocento metri, stretta fra un
mare profondo e montagne crudeli. È un corpo debole che ha potuto
compensare l'insicurezza soltanto con una sconfinata volontà di
potenza e un'intelligenza acuminata, come certi geni che avevano
passato l'infanzia nel letto."

E' l'incipit di un approfondimento di Curzio Maltese su Repubblica.
Sulle osservazioni e le percepibili "sviolinate" di carattere ideologico ovviamente sono in totale disaccordo, ma è ben scritto e imho merita una lettura.



Per giunta, Genova è da sempre divisa in
due. Esiste la città bassa del porto, dove sta la fatica, il sudore,
la puzza di bastimenti inasprita dalla macaja, lo scirocco genovese,
le puttane e i traffici d'ogni tipo. Qui monta come la spuma delle
onde la città ribelle, esplode da secoli la rivolta che comincia con i
cortei di massa e finisce ogni volta nella fuga solitaria per carrugi,
i vicoli sopra il porto, "viscere del mondo", per scappare alle
mazzate di gendarmi, poliziotti, carabinieri.

Questa è la città più radicale d'Italia, la patria del Risorgimento,
del socialismo e della Resistenza, il cuore dei moti del '60 contro il
governo Tambroni, la culla delle Brigate Rosse e dei no global. Ed
esiste la città alta, la più aristocratica e conservatrice d'Italia.

La Genova dei quaranta palazzi nobiliari di via Garibaldi, invidia
delle corti europee, eletti "patrimonio dell'umanità" dall'Unesco, ma
in concreto proprietà delle antiche famiglie, forzieri di marmo e oro
con tesori incredibili; ancora, la Genova borghese di Albaro e
Castelletto con dimore austere all'esterno ma dentro sfarzi, arazzi,
pinacoteche e giardini smeraldo da far impallidire la collina torinese
o Brera o le ville romane.

Dalla città alta le oligarchie controllano le rivolte e i traffici del
porto e badano che nessuno prenda troppo potere in città. Genova è
l'unica capitale italiana a non aver mai avuto una signoria. Ci ha
provato Simon Boccanegra, sette secoli fa, ed è finita in melodramma.
Le dieci famiglie che contano vigilano l'una sull'altra e anche
all'interno, come i Messina, i primi armatori del porto. Se chiedi
d'incontrarne uno, ti ricevono in otto in un ufficio circolare, con le
scrivanie affiancate di padri e figli, forse perché si vogliono bene e
magari per evitare che uno s'allarghi troppo. Il genovese dotato di un
esubero d'iniziativa può sempre cercare fortuna a Milano o a Parigi,
come il banchiere Alessandro Profumo o l'immobiliarista Carlo Puri
Negri o l'architetto Renzo Piano, purché non rompa le scatole qui. Il
poeta Edoardo Sanguineti commenta: "In nessuna città vale così tanto
il detto: nessuno profeta in patria. Le tre celebrate glorie genovesi,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Mazzini e Niccolò Paganini, rispetto alla
città più che esiliati erano fuggiaschi".

La borghesia conserva riti immutabili in circoli chiusissimi. Si può
venire ammessi col voto dei soci, biglie bianche e nere, e c'è chi
aspetta le bianche da trent'anni. Quasi ogni lunedì sera la mappa del
potere si ritrova in galleria Mazzini, un tempo meta diletta di
Montale e Calvino, e cena al ristorante Europa. Alle dieci precise si
sgomberano i tavoli e parte lo scopone. Da un lato i Garrone e gli
Anfossi, dall'altro il presidente dei commercianti Paolo Odone e il
presidente della Regione Claudio Burlando. Giocano e decidono i
destini della città. L'ultima partita, lunedì scorso, si è conclusa
con la vittoria di Burlando, che ha imparato dal padre camallo, e la
decisione di far fuori il presidente della fondazione Carige, Vincenzo
Lorenzelli, piazzato dall'Opus Dei, ciarliero e presenzialista. Quando
uno fa così, nelle famiglie genovesi si dice che "si comporta da
milanese", il peggior insulto. Lorenzelli si è dovuto dimettere già
martedì pomeriggio, scatenando la bufera.
Se a Milano politica e affari hanno divorziato, a Genova fanno ancora
sistema e lo fanno a sinistra.

Gianni Baget Bozzo, consigliere di Craxi ereditato da Berlusconi,
considera questo la sentina di tutti i mali. "Il declino cittadino,
l'incapacità genovese di aprirsi e legarsi al modello padano, nasce da
questo ferreo controllo che la sinistra, con la complicità delle
partecipazioni statali, ha esercitato sull'economia ligure". Ma a
parte la difficoltà d'immaginarsi l'Appennino disseminato dei
capannoni industriali lombardo-veneti, bisogna ammettere che il "patto
scellerato" fra politica e affari ha evitato negli ultimi vent'anni
una catastrofe sociale. Fra gli '80 e i '90, la chiusura delle grandi
fabbriche ha cancellato centomila posti di lavoro e duecentomila
abitanti. Il porto, le banche, le botteghe e i bilanci delle famiglie
erano sull'orlo della bancarotta. "La politica ha fatto il suo
mestiere" rivendica Burlando, protagonista della svolta prima come
sindaco e poi da ministro dei Trasporti "Il porto in dieci anni ha
quintuplicato il volume di merci, da 300 mila a più di un milione e
mezzo di containers.

Abbiamo impedito che lo Stato chiudesse tutti gli stabilimenti e ora
il polo Finmeccanica fa utili e riassume. La disoccupazione è
dimezzata e il turismo segna primati su primati. In più, i soldi degli
eventi, dalle Colombiadi del '92 al G8 del 2001 al 2004 della Cultura,
sono finiti nel restauro della città, che è bellissima, e non in
mazzette. Dove sarebbe l'assistenzialismo?".

I risultati spiegano la tenuta delle sinistre, la rinascita della
città, la ritrovata voglia di far figli dopo anni di record di
denatalità e anche di divertirsi nella brulicante "movida" del
venerdì. Ma ora che è passato il pericolo dell'"estinzione di Genova",
annunciata dai sociologi del malaugurio, si tratta di guardare al
futuro e qui i conti tornano meno.

Sui delicati equilibri cittadini si sono abbattute in pochi mesi tre
novità cui i genovesi, secondo indole, guardano con diffidenza. La
prima è l'"affresco" di Renzo Piano per il porto, voluto dal sindaco
uscente Beppe Pericu e osteggiato dai potentati. La seconda novità è
l'assalto alla cassaforte della città, la Carige, che s'intravede
oltre le dimissioni di Lorenzelli, accusato dall'asse bipartisan che
l'ha liquidato (da Scajola a Pericu) di voler far entrare i francesi.
La paura è che la cassa di risparmio di Genova possa finire preda nel
grande risiko bancario europeo, ridotta a vassalla dei colossi
italiani, Unicredit e Intesa, o stranieri. Non si tratta soltanto di
proteggere le "palanche" ma anche l'identità cittadina. Genova è la
madre di tutte le banche, l'unica potenza che ha dominato il mondo,
dal 1550 al 1630 ("El siglo de los Genoveses" s'intitola il bel libro
di Felipe Ruiz Martin), senza un forte esercito o un grande stato alle
spalle, ma grazie al genio di un pugno di finanzieri.

La terza novità è l'asprezza dello scontro per la poltrona di sindaco,
soprattutto a sinistra. Alle primarie del 4 febbraio il perno della
politica cittadina, i Ds, arrivano spaccati in tre o quattro fazioni,
con il Correntone per la prima volta fuori e con Rifondazione, in
appoggio a Sanguineti, la maggioranza fedele alla battagliera Marta
Vincenzi ma con una fronda che avrebbe preferito il dalemiano Margini;
infine un cospicuo gruppo di militanti a fare il tifo per
l'indipendente Stefano Zara. Il "caso Genova" è la prova più concreta
di quello "sgretolamento della Quercia" di cui ha scritto Filippo
Ceccarelli. Berlusconi si è precipitato a tener comizi, fin da oggi,
in sostegno del candidato Enrico Musso.

Nel cuore e nella testa dei genovesi per primo arriva il porto perché
qui comincia sempre la storia di Genova. Dal porto antico e da un
progetto di Renzo Piano è scaturita la riscossa degli anni Novanta,
con il successo dell'Acquario, concepito per 700 mila presenze annue e
benedetto fin dal '93 dal doppio di visitatori. Dall'"affresco" di
Piano potrebbe cominciare la rinascita internazionale, con il
faraonico progetto di spostare verso e dentro il mare, sulle
piattaforme, centinaia di migliaia di metri quadri di banchine e
officine, perfino l'aeroporto, come a Osaka. "Genova è la perfetta
città di mare" spiega Piano dallo studio-serra di Arenzano "perché
città e golfo sono una cosa sola. E allora perché non far diventare il
mare vera città, costruendo sull'acqua?". Perché costa cinque miliardi
di euro? "Ma è un investimento sul futuro. Prendi una mappa d'Europa,
tira una riga da ogni angolo: Genova è al centro. Oggi le merci
viaggiano da Suez a Rotterdam, si spostano su rotaia e arrivano in
Baviera, Svizzera, Lombardia, con cinque o sei giorni di navigazione
in più perché qui al porto non c'è posto. Non è assurdo?".
"Un genio!" ha urlato la città intera all'inaugurazione, ma si è
affrettata a rinchiudere i disegni in un museo.

"Non l'hanno buttato via soltanto perché era gratis" sorride il Paride
Batini, il sagace e leggendario capo dei camalli, nove volte eletto in
assemblea "console della Compagnia", ovvero rappresentante dei
lavoratori del porto, autentica aristocrazia operaia che vanta
un'associazione fondata nel 1340. Un tempo i camalli erano novemila e
il "console" era il vero padrone del porto. Ora sono cinquemila, dopo
essere scesi a mille, lavorano dieci ore e se va bene portano a casa
1200 euro, salvo arrotondare col "gancio". Il "gancio" è l'uncino per
collocare i carichi che i camalli usano con secolare maestria.
Talvolta però capita che scivoli e tagli la pancia dei sacchi, con la
merce che cade e viene archiviata come "avariata" per l'assicurazione.
Il camallo esce dal turno con la giubba gonfia di caffè, salutando il
finanziere che si limita a lanciargli un "ti sei ingrassato, neh?".

Comunque, ci vuol più di qualche colpo di maglio per restituire alla
gente del porto l'antica abbondanza. Il console Batini non si rassegna
al declino. All'ombra di un ritratto di Lenin, intonso e ornato di
fiori, spiega la sua teoria: "Io sono comunista, ma pure pragmatico.
Ero contro la privatizzazione del porto e ammetto che ha funzionato.
Ora però non basta. Il porto non cresce più. Siamo in stallo di fronte
alla concorrenza di Marsiglia, Barcellona, Rotterdam. L'affresco di
Piano è l'occasione per tornare al porto emporio, dove non ci si
limita a parcheggiare i containers che passano e lasciano poca
ricchezza, ma si riparano le navi, si commercia, si produce. Qui le
professionalità ci sono tutte, da secoli. Manca soltanto lo spazio. I
padroni, gli armatori, i terminalisti, non vogliono cambiare perché
oggi guadagnano e comandano. Ma domani, con la globalizzazione, saremo
fregati tutti, noi e loro.
Genova o va per il mondo o non esiste".

Ed è curioso che il capo dei portuali, con la quinta elementare e il
genovese unica lingua ("purissima, i camalli sono gli unici a
conservarla" osservano i filologi dell'Università) giunga alle
conclusioni del più colto storico del Mediterraneo, Fernand Braudel:
"Fabbrica, ma per gli altri; naviga, ma per gli altri; investe, ma
presso gli altri. Genova senza il mondo non può vivere". Ma, come dice
Batini, ci sono i padroni sulle barricate al fronte del porto.
L'individualismo che ha permesso in passato le grandi imprese dei
capitalisti genovesi, oggi s'è rovesciato nel perenne mugugno, nella
maledizione dei veti incrociati. I promotori del progetto, a partire
da Pericu, si sbattono per trovare fondi. "Senza dimenticare" osserva
il sindaco "che il porto di Genova offre ogni anno allo Stato due
miliardi di tasse e sarebbe giusto e anche conveniente reinvestirne
una parte".

Gli oppositori plaudono e boicottano, in una città dove nessuno ama
esporsi e perfino Beppe Grillo, indomito persecutore delle
multinazionali del pianeta, sulle vicende cittadine si dilegua: "Non
farmi parlare del porto, per carità, che qui sono permalosissimi e ti
rendono la vita impossibile".

Il linguaggio del potere genovese è troppo raffinato per un cronista.
Ma quando il presidente dei commercianti Paolo Odone mi accoglie nella
sbalorditiva Sala Dorata di Palazzo Tobia Pallavicino ed esordisce: "A
Genova i poteri forti non esistono più", capisco anch'io che ne è il
rappresentante. Attacca l'elogio del "capolavoro di Piano" ma basta
attendere l'inevitabile "e tuttavia..." per assistere a una gragnuola
di critiche. Fino all'esequiale: "Non si farà mai. Ci sono altre
priorità, a cominciare dal terzo valico ferroviario". Allora salgo a
un altro palazzo, la sede della Erg petroli di Riccardo Garrone,
proprietario della Samp e di mezza città. Garrone detesta Odone e il
"suo mandante", Giovanni Berneschi presidente della Carige: "Il centro
da cui partono tutti i veti" dice secco. "E tuttavia..." neppure lui
si schiera a favore del nuovo porto e propone un suo "modello
americano": "Prendere quindici teste d'uovo e studiare le soluzioni
per il futuro. Non soltanto il porto ma anche il nuovo polo
tecnologico. Genova è una città magnifica e oggi attirare i cervelli è
una gran risorsa". Finché, esausti, non si prende l'ultima salita,
stavolta nel magnifico ascensore che porta alla collina delle vecchie
famiglie, quello dei versi di Giorgio Caproni ("Quando mi sarò deciso
d'andarci, in paradiso ci andrò con l'ascensore di Castelletto") .

Qui Beppe Anfossi, il padrone degli acquedotti, allievo del mitico
Giamba Parodi, chiarisce il mistero: "I soldi ci sono ancora ma s'è
persa la grandezza, il rischio, se vuole anche la ferocia dei capitani
d'una volta. Ch'erano feroci coi foresti ma generosi nei confronti
della città. La patria del capitalismo ora s'accontenta della
rendita".

Generosi? I ricchi genovesi? Massì, pensa a Giamba Parodi re delle
acque che viaggiava in "500" (con l'autista) per risparmiare, ma
pagava bene gli operai. Al vecchio Angelo Costa delle crociere che
prelevava una quota dalla busta paga, la investiva e alla fine si
presentava ai lavoratori con la sorpresa: un mazzo di chiavi. "Ti ho
comperato la casa. Se te li davo, li spendevi". Al più grande
banchiere della storia, Amadeo Peter Giannini, fondatore della Banca
d'America, che ha finanziato la ricostruzione di Genova nel '45. Per
tutta la vita ha teorizzato "un uomo non può voler possedere più di
mezzo milione di dollari" ed è morto con un capitale stimato in 489
mila 277 dollari, preciso e di parola come si conviene a un genovese.

Dov'è finita la grandezza dei genovesi? E' rimasta attaccata ai
palazzi, nella magnificenza dei musei, Palazzo Ducale, Palazzo Rosso e
Bianco, nei monumenti del centro storico più vasto d'Europa, nelle
ville patrizie che schiudono giardini smeraldo e pinacoteche e salotti
di fiammeggiante barocco, nei tanti tesori segreti di una città che
Cechov nel Gabbiano celebra come "la più bella del mondo, l'unica dove
si può cogliere uno spirito universale", illuminata in certe mattine
da tutta la luce del Mediterraneo. C'è voluto il coraggio dei padri,
gente "selvatica", per strappare alla violenza della natura tanta
civiltà e ricchezza, senza poter contare su un ettaro di pianura o un
campo di grano. Chissà quanto ne occorre oggi gli ultimi genovesi per
ripartire ancora una volta verso il nuovo mondo.

3 Comments:

At 2:45 PM, febbraio 09, 2007, Anonymous Anonimo said...

Miii quant'è lungo!...mi tocca leggerlo a rate!..
Comunque Gobbo...io non riesco mica a iscrivermi!...come si fa?!?!?
Beh,buon uichend a todos!!

 
At 8:38 PM, febbraio 09, 2007, Blogger FletcherLynd said...

dai Roby, Diso ci è riuscito!
Vuoi essere da meno? ;D

 
At 9:21 PM, febbraio 09, 2007, Blogger Diso said...

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