martedì, marzo 27, 2007

Gli Australiani, nel frattempo...

continuano a prendersela in culo da noi all'ultimo secondo!!!
...e questa volta a casa loro:






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sabato, marzo 24, 2007

LE TERMOPILI E I 300 SPARTANI


E' uscito "300" di Frank Miller ("quello di Sin City", tanto per intenderci), ed è abbastanza clamoroso... però, visto che il buon Frank ovviamente ha rivisto la storia un po' alla sua maniera "colorita", e che si tratta di pagine di storia di un certo valore, anche senza romanzarle, è da qualche settimana che mi metto di buzzo buono per fare un resoconto storico della vicenda.



SPARTA

Gli Spartani erano diversi dagli altri Greci; non solo per carattere, sistema sociale, abitudini... erano diversi proprio etnicamente: appartenevano ad una razza diversa.
Tutti i greci erano, generalmente, di ceppo mediterraneo, anche se molto "mescolati" tra le varie etnie dopo secoli di spostamenti, invasioni, commerci, guerre e quant'altro.
Gli Spartani, invece, erano differenti ed inconfondibili: più alti della media dei greci, di carnagione e occhi generalmente chiari, con capelli biondi o rossi: lo giustificavano con il fatto di essere i discendenti degli Eracleidi, i 50 figli di Ercole scacciati dalla Grecia e poi ritornati a prendere possesso di quello che era stato loro tolto.

In realtà erano discendenti diretti dei Dori, una popolazione di ceppo germanico-slavo che aveva invaso la Grecia attorno al 1200 a.C., attestandosi poi nel Peloponneso.
A Sparta, però, a differenza di quanto è sempre avvenuto, nel corso della storia, in queste situazioni (basti pensare alle invasioni barbariche in Italia dopo la caduta di Roma), i conquistatori non accettarono mai di mescolarsi con le altre etnie, e così, sette secoli dopo il loro arrivo, tutti i cittadini spartani appartenevano ancora alla stessa razza.

Forse questi sviluppi furono agevolati dalla geografia: la città di Lacedemone (il suo vero nome greco, così come Laconia era la valle e Laconici, o Lacedemoni, gli abitanti) era composta da un agglomerato di abitazioni disseminate sulle pendici del monte Taigeto (ed infatti il termine Sparta significa "la sparpagliata", un appellativo poi diventato il nome latino della città); i monti facevano da barriera naturale per gli stranieri, al punto che la città non ebbe mai bisogno di mura difensive.

Attorno al 900-800 a.C., la città stabilizzò il proprio ordinamento politico con le "Leggi di Licurgo", regole che disciplinarono una volta per tutte la proverbiale rigidezza spartana, talmente dure che i suoi stessi concittadini, all'inizio, non ne erano molto convinti; lui fece loro promettere solennemente che le avrebbero rispettate almeno finché non fosse tornato da una visita ad un tempio, e che ne avrebbero riparlato allora; arrivato al tempio vi si fece murare dentro, lasciandosi morire di fame, e "obbligò" così i suoi compatrioti a rispettarle per sempre.

In base alle leggi di Licurgo, Sparta doveva sempre avere due Re, in modo che il potere decisionale non fosse mai nelle mani di un solo uomo, e si controllassero l'un l'altro; prendevano le loro decisioni confrontandosi con il Consiglio, composto dai cittadini maggiori di 60 anni, e l'Assemblea, con tutti i cittadini maggiori di 30 anni; su tutti vegliavano gli Efori, i 5 anziani che avevano il compito di controllare la rigida applicazione delle leggi di Licurgo e regolavano il culto degli Dei.

Cittadini di Sparta in senso proprio erano soltanto gli Spartiati, i discendenti dei Dori, casta dominante ed intoccabile per diritto di nascita.
Tutti gli altri abitanti della città e della Laconia erano divisi in Iloti, cioè schiavi, e Perieci, cittadini liberi ma non appartenenti alla casta dominante, e pertanto privi di qualsiasi diritto politico e civile.

Sparta non aveva un esercito: Sparta ERA un esercito.
Ogni singolo Spartano non aveva, o meglio, non poteva avere, alcun'altra occupazione che non fosse la vita militare, sin dalla nascita: tutta la vita di un lacedemone era dominata da un'unica regola, "il disprezzo del comodo e del piacevole".

I neonati venivano portati via immediatamente dalle madri, e valutati: i deboli e i malformati venivano uccisi abbandonandoli sul Taigeto. I bambini sani, a 7 anni, dovevano abbandonare la famiglia ed iniziare l'AGOGHE', entrando in caserma, inseriti sin da piccoli all'interno di unità militari di cui avrebbero fatto parte per tutta la vita; gli veniva insegnato a leggere e scrivere, ma per il resto non conoscevano altro che la disciplina e l'addestramento militare.

Venivano costretti a dormire all'aperto, dovendosi procurare il cibo da soli; l'unico svago concesso nel tempo libero era la lotta tra loro, per stabilire chi fosse il più forte; venivano invogliati a rubare, per dimostrare destrezza, ma venivano puniti duramente se si facevano scoprire; l'unico modo per terminare l'addestramento era superarlo, oppure morire: non c'erano sconti o permessi speciali per nessuno.
Questa simpatica "scuola dell'obbligo" terminava dopo 23 anni, allo scoccare dei 30, il momento in cui la recluta diventava uomo: era necessario metter su una nuova famiglia e procreare altri spartani.
Le ragazze in età da matrimonio venivano fatte passare davanti alle caserme, nude, e i maschi sceglievano la propria moglie, a cominciare ovviamente dai più meritevoli.

Chi non aveva figli veniva multato e disprezzato, il tradimento della moglie non era punibile se consumato con uno spartano più alto e forte del marito cornuto; il celibato era un reato, punito in modo severissimo.

Gli spartani, come detto, sapevano leggere e scrivere, perché era necessario, ma non coltivavano nessuna arte o piacere.
I cibi erano, ovviamente, "spartani": si mangiava alla mensa comune fino ai 60 anni, essere in sovrappeso era punito con l'esilio; possedere oro e argento era severamente vietato, come moneta si usava il ferro.

Agli spartani non era concesso alcun interesse per la pittura, la scultura, l'architettura, la poesia, la letteratura; amavano la musica, che era anzi ben vista, ma SOLO quella corale, perché favoriva il cameratismo e l'armonia delle manovre militari: il canto individuale e gli assoli all'interno di un coro erano severamente vietati e si puniva chiunque vi si dedicasse.
Sparta, la Polis, veniva prima di tutto: ogni disobbedienza alle leggi e agli ordini dei superiori era considerata tradimento e punita con la morte o l'esilio.

Ogni morte che non fosse quella in battaglia (che chiamavano "la bella morte") era disonorevole; cadere in battaglia era la massima aspirazione di ogni Spartano, e solo chi periva combattendo per Sparta aveva diritto ad una lapide individuale che ne segnasse la tomba: tutti gli altri avevano fosse di famiglia comuni, senza distinzione tra i singoli.
Quando da una battaglia ritornava un cadavere, le donne ne controllavano le ferite: se erano solo sulla parte posteriore, segno che era stato ucciso mentre fuggiva, lo disconoscevano e rifiutavano di seppellirlo nella tomba di famiglia.

Sparta si reggeva sul dominio della paura e della forza bruta: nessuno straniero poteva accedere alla città e nessuno Spartano poteva lasciarla senza un permesso speciale; la gestione di tutte le attività di pubblica utilità (commercio, agricoltura, economia ecc) erano delegate ai perieci, perché agli spartani non era consentito occuparsene, ma soltanto combattere, partecipare alle assemblee o allenarsi per le battaglie future; l'economia si reggeva esclusivamente sulle terre che gli iloti lavoravano tutto l'anno per poi consegnarne i proventi ai padroni, trattenendo solo il necessario per sopravvivere, e sui tributi pagati dalle città assoggettate con la forza, o capitolate prima ancora di combattere.
A volte, infatti, quando Sparta si trovava a "discutere" con un'altra polis, quest'ultima schierava il proprio esercito sul campo soltanto per difendere il proprio onore e poter dire di aver combattuto: non appena i flauti suonavano la canzone di guerra spartana, e la falange iniziava a muoversi, si arrendevano.

Erano diversi dagli altri greci anche per come affrontavano le battaglie: ma, per capirlo. è prima necessaria una parentesi sullo stile di combattimento dei greci in genere; uno stile che non era solo strategia militare, ma anche, o forse soprattutto, una filosofia politica: lo stile degli opliti, e della falange.

GLI OPLITI.

Le polis greche erano poco popolose, e quindi non potevano permettersi un esercito permanente, altrimenti non ci sarebbero stati abbastanza lavoratori; l'unica eccezione, ovviamente, era Sparta, in cui erano i non-cittadini a lavorare per gli Spartiati.
Nel resto della Grecia, ogni cittadino in età adulta, oltre ad esercitare la propria attività lavorativa, per poter godere di tutti i diritti civili e politici, era tenuto a comprarsi e mantenere la propria armatura (PANOPLIA) completa di tutto punto, ed a partecipare agli allenamenti ed alle esercitazioni: in caso di necessità, tutti i cittadiin abili venivano arruolati, e diventavano soldati... o meglio, opliti.

Il termine oplita deriva da HOPLON, il grande e massiccio scudo rotondo che li caratterizzava; i greci avevano una vera e propria venerazione per lo scudo, che era di gran lunga il pezzo più costoso della panoplia, quello più curato e venerato.
Di primo acchito può sembrare curioso: quando pensiamo alle battaglie combattute nei millenni che hanno preceduto le armi da fuoco, l'elemento che cattura subito l'immaginazione è la spada (pensate ad Excalibur), o comunque un'arma offensiva (un'ascia, una lancia, un arco), al limite un elmo, l'armatura... ma lo scudo proprio no!
I greci invece avevano un interesse minimo per le spade, le lance, le armature, tanto che ne sono arrivate pochissime fino a noi (a dimostrazione che non erano particolarmente robuste, né tenute in gran considerazione), e quelle che sono arrivate sono semplici, poco curate, senza fronzoli o arricchimenti... a differenza degli scudi, che erano gelosamente custoditi e curati al massimo.
Quando una moglie salutava il marito in partenza per la battaglia, gli consegnava lo scudo dicendo semplicemente "torna con questo, o su questo" (visto che i morti e i feriti venivano trasportati sullo scudo a mo' di barella): abbandonare lo scudo era considerato il massimo disonore.

Per capire il motivo di tutto ciò è necessario partire dallo scudo stesso, perché l'hoplon greco è unico, e dice molto del suo utilizzo: in genere uno scudo è studiato in modo da avere l'impugnatura, la maniglia, esattamente al centro, così da renderlo il più maneggevole possibile; il soldato può tenerlo vicino al corpo oppure allontanarlo da sè tendendo il braccio, alzarlo o abbassarlo rapidamente, spostarlo a destra o a sinistra; generalmente è di forma ovale o comunque allungata, e più o meno delle dimensioni del torace: abbastanza grande da coprire le parti vitali, ma abbastanza maneggevole da non intralciare i movimenti.
L'hoplon, invece, era perfettamente rotondo, concavo, grande e pesante: l'impugnatura non era al centro ma vicina al bordo esterno, ed esso si impugnava infilando l'avambraccio dentro una staffa messa al centro, fino al gomito.
In questo modo, una volta impugnato, aveva una disposizione curiosa: il soldato aveva tutto il braccio, fino al gomito, praticamente "saldato" allo scudo, che con la sua forma concava gli poggiava sulla spalla.
Non era possibile muoverlo molto, anzi lo si poteva muovere ben poco: non poteva essere tenuto a braccio teso e non consentiva un vasto raggio di movimenti, potendo essere spostato soltanto di poco nelle quattro direzioni; per parare in alto o in basso l'oplita più che muovere lo scudo muoveva sè stesso al riparo dello scudo, spostandosi o accucciandosi.

Infine, dato che era rotondo ed imbracciato a quel modo, copriva solo in parte gli organi vitali, lasciando scoperta tutta la parte destra del torace, e invece sporgeva a sinistra, oltre il corpo del soldato, che tra l'altro, se voleva avere qualche possibilità di usare efficacemente la lancia e la spada, doveva tenerlo più a sinistra che poteva, perché spostandolo più al centro davanti a sè si sarebbe trovato impedito a vedere e ad avere spazio per colpire: insomma, per il corpo a corpo in campo aperto era fin troppo grosso e pesante, difficile da maneggiare, sbilanciato a sinistra... ma perché?

Perché l'hoplon NON era studiato per proteggere solo il suo proprietario, ma anche, anzi soprattutto, il compagno alla sua sinistra.
Gli opliti, infatti, non combattevano individualmente, ma con uno stile di battaglia unico ed immutabile: la falange.

Tutti i soldati si stringevano uno accanto all'altro, ed ogni scudo proteggeva un compagno, formando un vero e proprio muro di metallo, da cui sporgevano soltanto, grazie alla loro lunghezza, le lance delle prime due-tre file. Una formazione che poteva funzionare solo con la disciplina totale, l'armonia nei movimenti di un gruppo di soldati che si muovessero all'unisono: se anche un solo elemento cedeva, tutto rischiava di andare a catafascio; se i soldati facevano troppo gli spavaldi e non stavano vicino al compagno alla propria destra, lasciavano varchi e si trovavano esposti ed indifesi; se al contrario si accucciavano troppo a proteggersi dietro lo scudo del compagno, tutta la formazione tendeva a spostarsi a destra, curvando e sbilanciandosi (ed è per questo che l'ala destra era la posizione più importante e la più nobile, perché "teneva le redini" dell'intera formazione).

All'interno della falange i soldati venivano disposti per famiglie e per quartieri; in questo modo era più semplice organizzare gli allenamenti e l'addestramento, schierarsi in formazione da battaglia era molto rapido, perché tutti stavano sempre allo stesso posto, ed inoltre si forniva un elemento ulteriore di coesione e affiatamento: in battaglia i cittadini si trovavano uniti, a contatto gli uni con gli altri, a difendere la propria città... e accanto a sè avevano il padre, il figlio, il fratello, il cognato; poco più in là un vicino di casa, o un amico con cui si era cresciuti assieme.

Con queste premesse la mistica greca dello scudo è finalmente comprensibile: la spada, la lancia, l'armatura... servono a te, sono utili a te, sono importanti per te; se le perdi o le getti via, in fondo, che può succedere? Alla peggio avrai minori possibilità di uccidere un nemico, e/o maggiori possibilità di rimanere ucciso... peggio per te!

Ma lo scudo... lo scudo difende il tuo vicino, che a sua volta sta difendendo il suo, e così via:
lo scudo DIFENDE LA CITTA'.

E
quindi, anche se rimani senza spada, senza lancia, senza armatura, se sei stanco o ferito, NON DEVI ABBANDONARE LO SCUDO, devi rimanere al tuo posto e continuare a muoverti con gli altri, perché con il tuo scudo stai difendendo un tuo parente, i tuoi famigliari, i tuoi vicini, la tua fila, tutta la tua città.

Questa fu la regola in tutte le polis, senza particolari strategie o innovazioni, per secoli: i due eserciti oplitici si fronteggiavano, venivano a contatto, e i soldati iniziavano, letteralmente, a spingere con le spalle dentro ai propri scudi, contro gli scudi avversari, cercando allo stesso tempo di colpire prima con le lance, e poi con le spade: non appena un punto della muraglia di metallo cedeva senza essere coperto dalle file posteriori abbastanza in fretta, e si creava un varco in uno dei due schieramenti, la battaglia era finita.

Uno stile di combattimento apparentemente semplice, quasi noioso, che però permise alle città greche un dominio militare incontrastato per secoli e secoli: la falange prima fece in modo che la Grecia non venisse mai conquistata e sottomessa, poi, con gli accorgimenti apportati da Epaminonda, Filippo e Alessandro Magno, permise all'ellenismo di conquistare tutta l'Asia, ed infine, reinterpretata dai Romani, portò allo sviluppo dell'Impero Romano.

Come detto, tutti i greci combattevano a questo modo; gli spartani, però, ovviamente lo interpretavano a modo loro.
Innanzitutto, come detto più volte, erano gli unici soldati professionisti: i greci delle altre polis si allenavano parecchio per ottenere l'affiatamento e l'abitudine, ma rimanevano pur sempre contadini, marinai, commercianti,per cui la guerra era un "secondo lavoro"; gli spartani lo facevano per tutta una vita, che dedicavano solo a quello.

Ogni greco si comprava la sua armatura, e quindi poteva adornarla a suo piacimento: gli eserciti delle altre polis, quindi, erano quantomai variegati, praticamente non c'era un soldato uguale ad un'altro, e talvolta capitava che, se la battaglia era troppo caotica, non si riuscisse nemmeno a disintiguere amici e nemici, visto che parlavano tutti la stessa lingua ed erano tutti diversi uno dall'altro;
le panoplie degli spartani, invece, venivano fornite dallo Stato, ed erano quindi uguali per tutti: gli altri scudi erano di legno con innesti in ferro e bronzo per renderlo più massiccio; quello spartano era interamente ricoperto, all'esterno, da una patina di bronzo lucidato che lo faceva sembrare d'oro, su cui troneggiava, in rosso, la "Lambda" maiuscola, iniziale di Lacedemone (per chi non conosce l'alfabeto greco, è come un triangolo senza la base, o come una V rovesciata).

Tutti i Greci prima della battaglia si tagliavano i capelli, per evitare che il nemico potesse aggrapparsi, e per lo stesso motivo avevano elmi semplici e lisci, e non indossavano indumenti larghi o svolazzanti; gli spartani tenevano i capelli lunghi fino alle spalle, e prima delle battaglie non solo non li tagliavano, ma li pettinavano con cura, lisciandoli o intrecciandoli; in cima all'elmo avevano una cresta rossa di crine di cavallo, alta e fitta, e combattevano con un ampio mantello rosso... in ogni caso nessuno si sarebbe avvicinato abbastanza da poterli abbrancare.

Tutti i greci erano forti, disciplinati, e si muovevano all'unisono: ma gli spartani erano più forti, più disciplinati, e la loro falange si muoveva in modo automatico, inumano.
Erano già sensibilmente più alti e grossi degli altri greci, e il mantello, la cresta e i capelli lunghi li facevano sembrare ancora più torreggianti: erano tutti uguali, senza punti deboli, senza errori nei movimenti corali provati e riprovati per tutta la vita: un muro di metallo, oro e rosso.
Si muovevano più lentamente delle altre falangi greche, perché per loro la coesione totale era più importante del rischio di stare troppo a lungo esposti alle freccie nemiche, o dell'impeto di una carica al massimo della velocità; usavano la musica dei loro flauti da guerra per marciare a tempo e per comunicare gli ordini in battaglia, e affrontavano ogni confronto con serenità e quasi con gioia... perché non avevano paura di morire in battaglia, anzi era l'unica morte che concepivano, lo scopo della loro esistenza.
Come dice Plutarco
"Era uno spettacolo grandioso e insieme terrificante, vederli avanzare al passo cadenzato dei flauti senza aprire la minima frattura nello schieramento o provare turbamento nell'animo, calmi e allegri, guidati al pericolo dalla musica".

Quando il flauto iniziava a suonare la loro canzone di guerra, qualsiasi avversario tremava...
perché si muovevano come se fossero una cosa sola, e non erano mai stati sconfitti, da nessuno.
Questo era l'avversario che aspettava i persiani alle Termopili.

LA PERSIA E LA GRECIA PRIMA DELLE TERMOPILI.

La Persia, corrispondente all'attuale Iran, era diventata Impero sotto Ciro il Grande, il primo "Re dei Re".
Attorno al 500 a.c., vent'anni prima delle Termopili, si estendeva sostanzialmente in tutta l'Asia: dall'Egitto all'India, dall'Afghanistan al Golfo Persico; un impero immenso e ricchissimo, al cui confronto la Grecia, o meglio le singole città-stato greche, non erano altro che piccoli villaggi di agricoltori, commercianti e pescatori, in un territorio aspro, montuoso e senza ricchezze naturali.

I Greci però erano orgogliosi e tenaci, e fecero in modo di stuzzicare il gigante: le città greche della Jonia (la parte dell'attuale Turchia che fronteggia la Grecia), facevano parte dell'impero dal 565, quando il mitico e ricchissimo Re Creso di Lidia (la Turchia occidentale) che regnava su tutta la zona jonica, aveva chiesto all'Oracolo se conquistare la Persia fosse un'impresa: la risposta fu "se supererai il fiume Halys (il confine con la Persia), distruggerai un grande regno": lui lo fece, ed in effetti finì per distruggere un grande regno: il suo. Con lui caddero in mano ai persiani tutte le suddette colonie ioniche.

Come detto, però, i greci sono testardi, e le città della Jonia ebbero la bella idea di ribellarsi all'impero, ottenendo l'aiuto di Atene e di altre città greche della madrepatria.
La ribellione si concluse in un massacro ai danni delle città ribelli, ma il Re dei Re Dario, che fino ad allora aveva sostanzialmente ignorato l'esistenza della Grecia, si infastidì parecchio e decise di conquistarla, giusto per darle una lezione, anche se per quel fazzoletto di terra non aveva alcun interesse economico, politico o strategico.
Imbarcò così un esercito di 60.000 soldati e 10.000 cavalieri su 600 triremi (che erano più di quante tutte le città greche messe assieme potessero schierare: Atene stessa, la più ricca e florida, non ne aveva che una ottantina).
I Persiani spostavano l'esercito per mare, lo facevano sbarcare, assediavano una città: se questa non si sottometteva la conquistavano, facendo terra bruciata e migliaia di prigionieri, e si spostavano verso un'altro obiettivo; i Greci erano disperati, perché non avevano abbastanza navi per impedire alla flotta persiana di spostarsi, ma nemmeno singoli eserciti abbastanza grandi da poter affrontare a terra quello imperiale, le divisioni interne e la velocità con cui i persiani spostavano le forze impedivano loro di unire le proprie forze... a chi subiva l'attacco non rimaneva che asserragliarsi dietro le mura a sopportare l'assedio finché non si arrendevano.

Le cose cambiarono quando l'esercito di Dario attaccò Atene: fu deciso, su suggerimento di Ippia (ex dittatore di Atene scacciato dalla città, che aveva offerto aiuto a Dario per ritornare in patria e vendicarsi), di sbarcare a Maratona, una spiaggia ad una quarantina di chilometri di distanza dalla città.
Gli Ateniesi chiesero aiuto a Sparta, che rispose che non poteva mandare un contingente in aiuto immediatamente: avrebbero dovuto aspettare la luna piena, e fino ad allora gli era proibito andare in battaglia, per questioni religiose; ma Milziade, uno degli strateghi (erano 10, e tenevano il comando a turno, un giorno a testa), riuscì a fare a meno dell'aiuto dell'esercito spartano, ritorcendo contro i persiani la loro stessa strategia, e trasformandola in una trappola.

Convinse, non senza difficoltà, i suoi concittadini a far uscire di gran carriera l'intero esercito cittadino (9,000 uomini), anzichè tenerlo a difesa della città, e andò a piazzarsi, con un numero più o meno uguale di alleati, sulle colline che fronteggiavano la spiaggia di Maratona, a meno di 2 km dal bagnasciuga: in questo modo bloccò l'esercito persiano appena sbarcato: la truppe imperiali non avevano lo spazio fisico per schierarsi in formazione da battaglia ed attaccare frontalmente gli ateniesi, e non potevano nemmeno tentare di spostarsi lungo la spiaggia, perché avrebbero esposto il fianco: erano inchiodati in riva al mare, e la loro schiacciante superiorità numerica non gli serviva a nulla, così come l'imponente e temibile cavalleria.
Gli eserciti si fronteggiarono in una situazione di stallo per dieci giorni, finché i persiani non decisero di tentare di reimbarcare in tutta fretta le truppe, per anticipare l'esercito ateniese ed attaccare direttamente la città rimasta indifesa: non appena Milziade percepì che stavano tentando di disimpegnarsi fece attaccare il proprio esercito, di corsa, alla massima velocità consentita agli opliti, sacrificando la coesione in favore della necessità di fare più in fretta possibile: i persiani riuscirono a portare via tutte le navi tranne 7, tutta la cavalleria e gran parte dell'esercito, ma persero ben 6400 uomini, a fronte di soli 192 morti tra i greci.
Milziade mandò in città il messaggero Fidippide, che si fece i 42 chilometri e fischia tutti di corsa, riportò la notizia e morì di stanchezza immediatamente dopo avre portato a termine il compito, (e così nacque la "maratona"); l'esercito riposò per una notte e poi lo rientrò ad Atene, unendosi anche al contingente di 2000 spartani finalmente arrivato ad aiutarli... ma ormai l'esercito persiano aveva fallito, e non gli restò che ritirarsi.
Dario, furioso, iniziò subito i preparativi per una nuova spedizione punitiva, ma fu bloccato prima da una rivolta in Egitto, e poi dalla morte.
La Grecia era salva, per il momento.

SERSE

Serse I subentrò come imperatore alla morte del padre nel 485 a.c., e dopo aver schiacciato la ribellione egizia ed una a Babilonia si mise subito d'impegno per vendicare l'affronto subito dal padre.
Si preparò per quattro anni, raccogliendo dai quattro angoli dell'impero un esercito ed una flotta immensi, ben più grandi dei precedenti; fece ammassare scorte alimentari in punti di raccolta predisposti lungo il tracciato previsto della marcia, e fece scavare un canale che tagliasse l'istmo del Monte Athos, per non doverlo aggirare.
La strategia sarebbe stata differente: usare la flotta per piccoli spostamenti e per i rifornimenti, e muovere con l'esercito per conquistare città dopo città; il segreto era travolgere gli avversari il più in fretta possibile, visto che, dopo aver abbandonato i punti di rifornimento predisposti nelle nazioni alleate, un'orda talmente vasta avrebbe fatto parecchia fatica a rifornirsi di acqua e cibo, soprattutto nell'aspra e dura Grecia.

Era indubbiamente l'esercito più numeroso mai osservato da occhio umano, ma la sua effettiva entità numerica è stata uno degli argomenti più dibattuti della storia.
La stima più generosa, quella di Erodoto, parla di 2 milioni di combattenti e di una massa totale di più di 5 milioni di persone, comprendendo anche tutto il contorno che l'esercito del Re in marcia comportava: il supporto logistico (genieri, fabbri, stallieri, cuochi, trasporti, ecc), i marinai della flotta, e più in generale tutti i soggetti che gravitavano attorno all'esercito persiano (mogli, concubine, prostitute, mercanti e quant'altro); le più pessimistiche riducono le cifre di Erodoto di 10 o anche di 20 o 30 volte,
la valutazione più credibile è di 350.000 combattenti (compresi i greci alleati di Serse, con le buone o con le cattive), e all'incirca altrettanti ausiliari tra marinai (le navi erano 1200 circa, e quindi chi le governava non poteva essere in numero inferiore a 300,000) e gli altri non combattenti.

Serse iniziò la sua marcia nella primavera del 480: Mardonio, che era il suo primo generale, braccio destro e cognato, e tra la spedizione di Dario e quella di Serse ne aveva guidata un'altra per consolidare le conquiste della prima, apriva la fila con il grosso dell'esercito; nel frattempo mandava avanti emissari che chiedessero la sottomissione agli abitanti delle terre che via via incontrava, rappresentata dalla consegna di vasi con "acqua e terra" di quelle zone.

Il Re, con tutto il resto delle truppe e la sua guardia privata (i 10.000 Immortali), seguiva a pochi giorni di distanza, raccogliendo le "adesioni" all'impero: si aspettava di non dover combattere nemmeno una battaglia, visto che spesso la sola presenza dell'esercito del Re dei Re era stata sufficiente per ottenere la capitolazione di avversari numericamente superiori alle piccole polis greche, anche perché le "condizioni" della sottomissione all'impero erano tutto sommato non troppo dure: la Persia richiedeva il giuramento di obbedienza, la trasformazione in satrapia (provincia) dell'impero, la nomina di un satrapo che la controllasse e avesse l'ultima parola e ovviamente l'imposizione di tributi, ma in cambio concedeva autonomia totale in campo religioso, morale e di organizzazione interna, oltre alla forza (in termini militari e di commercio) dell'appartenenza al più vasto impero che il mondo avesse mai conosciuto.

In effetti più di una polis accettò queste condizioni: quelle delle zone più vicine al confine, come la Tessaglia e la Macedonia, ma anche alcune di quelle controllate da Atene o Sparta,che trovavano più allettanti e meno gravose le richieste dell'Impero rispetto a quelle dei "cugini greci" che li dominavano al momento.

Furono proprio Sparta e Atene, le due indiscusse "grandi potenze" dell'epoca, ad opporre il rifiuto incondizionato a cui molte altre polis si adeguarono; Atene aveva da poco riconquistato la democrazia dopo l'intermezzo della tirannia, ancorché illuminata, di Pisistrato, e aveva appena costruito, su proposta di Temistocle, una immensa flotta di 200 navi, nuova di zecca, che l'aveva fatta diventare l'indiscussa potenza marittima del peloponneso, mettendola in "rampa di lancio" per il dominio economico che si sarebbe sviluppato in seguito; Sparta, dal canto suo, era la potenza militare incontrastata, e dominava su numerose città a lei sottoposte.
Non era quindi soltanto una questione di orgoglio e dignità, ma anche economica: sottomettendosi alla Persia avrebbero perso la libertà, e con essa la loro sfera di influenza sulle altre polis.
Gli spartani, ovviamente, espressero il loro rifiuto a modo loro: il diplomatico inviato da Serse fu ucciso gettandolo in un pozzo, suggerendogli di "procurarsi da solo" la terra e l'acqua da riportare al re.

Le città greche, però, persero tempo a litigare tra loro, come al solito: c'era chi, come Argo e Tebe, proponeva di arrendersi a Serse, o quantomeno di cercare un accordo, e chi invece voleva resistere ad ogni costo; nemmeno tra queste ultime c'era concordia: Atene era convinta che la battaglia decisiva dovesse farsi per mare, e che a terra bastava temporeggiare; alcune città volevano una resistenza accanita il più a Nord possibile, sin dalla Tessaglia, altri indicavano nelle Termopili il luogo ideale per fermare Serse, proprio al centro della Grecia, gli Spartani volevano una battaglia campale molto più a Sud, sull'istmo di Corinto (il che, guarda caso, avrebbe voluto dire lasciare Atene in balia di Serse).
In sostanza ognuno proponeva di scegliere come campo di battaglia quello più vicino alla propria città e sul terreno a se' più favorevole.
A forza di litigare, però, il tempo a loro disposizione si era esaurito, e i persiani erano ormai alle porte.

I GRECI

Serse, infatti, si era ricongiunto con Mardonio, e aveva fatto superare al proprio esercito l'Ellesponto (o Stretto dei Dardanelli), costruendo due "ponti di barche" di 300 navi ciascuno, legate insieme; un primo tentativo era fallito per una burrasca, e allora il Re aveva ordinato di "punire il mare" facendolo frustare 300 volte dalle sue guardie... la seconda volta era filato tutto liscio.
Così come il padre aveva avuto come consigliere Ippia, ex tiranno di Atene, anche Serse aveva un illustre greco a cui chiedere consigli su quelle strane genti e su quelle terre remote e periferiche, di cui nessuno nell'Impero sapeva praticamente nulla: Demarato, nientemeno che un ex Re di Sparta, accusato di essere di razza non pura e quindi punito con l'esilio da Cleomene, fratello maggiore di Leonida, uno dei due attuali Re.

Gli ateniesi furono i primi a muovere le proprie pedine: l'idea era quella di bloccare i persiani sul passo di Tempe, in Tessaglia, con una coalizione di 10.000 uomini (cui gli spartani non avevano voluto partecipare) al comando del solito Temistocle: i Tessali, però, rientravano tra quei greci che erano propensi ad accettare le proposte di Serse, e quindi non erano particolarmente calorosi con gli ateniesi; Serse, inoltre, scelse di aggirare il passo spostando con la flotta parte dell'esercito a sud del contingente schierato a Tempe.
I greci si trovarono così costretti a battere precipitosamente in ritirata per non essere circondati e schiacciati, mentre la ricca e florida Tessaglia si schierava con l'Impero.

La situazione si faceva sempre più spinosa, tanto che i greci si affrettarono a fare quello che facevano di solito quando erano nei casini: chiesero consiglio all'Oracolo di Delfi.

L'oracolo rispose agli Spartani che la distruzione della città poteva essere evitata solo con il sacrificio di uno dei due Re, ed agli Ateniesi che si sarebbero salvati soltanto grazie alle "mura di legno".

Presero atto del responso, che come al solito poteva voler dire tutto e il contrario di tutto, e si inventarono una nuova strategia: la flotta ateniese avrebbe occupato lo stretto di Artemisio, per impedire alle navi persiane di ripetere lo scherzetto di Tempe, costringendo i persiani a passare attraverso la seconda strettoia naturale dopo Tempe: il passo delle Termopili, le "porte di fuoco", dal nome delle sorgenti calde che vi si trovavano.
Nel punto più stretto era largo appena una trentina di metri, delimitato da un lato dalle pendici dei monti e dall'altro da una scogliera che finiva dritta in mare.

Era lì che Serse doveva essere fermato, o quantomeno rallentato il più possibile, per permettere alle altre città greche di riorganizzarsi e scegliere dove raccogliersi per la definitiva battaglia campale; gli ateniesi volevano che tutti gli eserciti greci, ed in particolare quello spartano, confluissero sulle Termopili, trasformandola nell'ultima linea di difesa della Grecia.
Sparta, però, rifiutò questa soluzione: non c'era tempo per mettere insieme tutte le forze disponibili; ci si dovette accontentare di una soluzione d'emergenza, ovvero l'invio di un piccolo contingente che si limitasse a temporeggiare, per il tempo necessario ad evacuare le varie polis e raccogliere tutte le forze per un'ultima, disperata difesa.

Il contingente greco era composto da circa 7000 uomini, racimolati qua e là in giro per la Grecia, di cui 3900 opliti, mentre il resto era rappresentato da schiavi, scudieri ed ausiliari.
Il comando, indiscutibilmente, spettava agli spartani, e più precisamente ad uno dei loro Re, il leggendario Leonida: temibile guerriero nonostante l'età avanzata (all'incirca 60 anni), ma soprattutto leader carismatico letteralmente adorato dai suoi concittadini.
Leonida andò in battaglia potrandosi dietro solamente i 300 uomini del suo HIPPEIS, la guardia personale che scortava e difendeva i Re in battaglia; generalmente l'hippeis era composto dai migliori giovani della città, tra i 20 e 30 anni; in questo caso, però, i 300 furono scelti, uno per uno, tra i veterani che avessero già un figlio maschio: se gli altri greci erano convinti di andare alle Termopili solo per prendere tempo e magari avere la possibilità di ritirarsi in buon ordine, o aspettare rinforzi, Leonida aveva una profezia a cui obbedire: per il contingente spartano sarebbe stata una missione suicida, e quindi era necessario che i predestinati fossero scelti in modo che la loro famiglia non si estinguesse.

Salutando la moglie, le disse "sposa un buono Spartano, e fa' dei buoni figli".
Arrivato sul campo di battaglia, alla domanda di un commilitone su quali fossero gli ordini, rispose:
"Arrivare al passo prima dei persiani.
Non ritirarsi."

LA BATTAGLIA

Giunti alle Termopili ed allestito il campo su una collinetta in cima al passo, i greci si diedero da fare per risistemare una piccola fortificazione, poco più che un muretto (chiamato infatti "muro focese"), che era stata eretta in una battaglia precedente; doveva servire più da punto di riferimento che da schermo: la strategia di Leonida prevedeva che i greci si battessero di fronte al muro, e che le schiere di opliti si alternassero, a rotazione, permettendo a chi veniva dalla prima linea di ripararsi momentaneamente dietro al muro per trovare un po' di riposo al riparo.

Al momento del suo arrivo, Serse inviò esploratori che descrissero gli spartani intenti a suonare il flauto e pettinarsi i capelli: chiese quindi a Demarato se questo dovesse essere inteso come un segnale di scarsa voglia di combattere, ma la risposta fu secca: quello era il modo degli Spartani di prepararsi per un grande pericolo, in vista del viaggio nel regno degli inferi... avrebbero combattuto fino alla fine.

Quando l'esercito fu schierato, il Re dei Re mando' a Leonida un messaggero, probabilmente uno dei leader dei greci passati dalla parte di Serse: era ancora convinto che nessun esercito greco avrebbe avuto la folle idea di affrontarlo in battaglia, e tentò un'ultima opera di convincimento rivolgendosi direttamente a Leonida.

Il messaggero iniziò dichiarando che Serse riconosceva la fama di grandi guerrieri degli Spartani, ed il loro coraggio a scendere in battaglia di fronte a forze così smisurate, e pertanto offriva loro un posto d'onore all'interno del proprio esercito, grandi ricchezze ed il ruolo di padroni della Grecia, una volta diventata provincia dell'impero; Leonida rispose che l'unica moneta con cui era possibile comprare la libertà dei greci era il sangue dei greci stessi.

L'ambasciatore passò quindi a magnificare la potenza dell'esercito persiano, dichiarando tra le altre cose che le miriadi di frecce che esso avrebbe scagliato avrebbero oscurato il sole; Dienece, pluricampione olimpico, riconosciuto come il più terribile guerriero spartano, rispose: "meglio così: combatteremo all'ombra!".

Prima di andarsene, incredulo, l'ambasciatore propose un'ultima e definitiva offerta: l'incolumità di tutti i presenti e la promessa che sarebbero stati liberi di tornare a casa loro, se si fossero limitati a consegnargli le armi.
Leonida rispose con due semplici parole, rimaste nella storia:

"MOLON LABE"

"Che venga a prendersele".


La situazione rimase in stallo per quattro giorni: Serse, dopo aver fatto posizionare il suo immenso trono d'oro su una altura che gli permettesse di vedere il campo di battaglia, schierava il suo esercito ai piedi del passo, sperando che i greci (che, a quel punto, considerava soltanto dei folli fanatici), finalmente si arrendessero, o magari tentassero un assalto suicida; il quinto giorno, stufo di aspettare, attaccò.
Era probabilmente la metà di settembre, un giorno caldo e umido.

L'onore del primo assalto fu concesso ai Medi, che erano l'ultima nazione entrata a far parte dell'Impero, e quindi la più vogliosa di guadagnarsi il favore del Re: Serse ordinò loro che gli spartani, se possibile venissero semplicemente catturati e non uccisi.
Erano diecimila, senza corazza, armati di piccoli scudi di legno leggero, giavellotti, spade leggere; attaccarono alla carica, in salita, di corsa, senza alcuna organizzazione o coesione: fu un massacro.
Andarono a schiantarsi contro la falange oplitica schierata compatta a coprire tutto il passo, e il loro impeto si arrestò subito; non appena gli attaccanti si furono fermati, i greci iniziarono a spingerli con li scudi, gettando letteralmente in mare quelli che non riuscirono a scappare, e rimettendoci pochissimi uomini.
Subito dopo i Medi vennero i Saci: erano armati con asce, ma anch'essi attaccavano in modo disordinato, senza coordinazione, e l'esito non fu migliore: i Greci, oltre alla superiorità di disciplina e armamento, traevano anche in inganno gli avversari variando le loro strategie: a volte si limitavano a far schiantare gli avversari contro il muro di scudi della prima fila, mentre i compagni da due o anche tre file più indietro li massacravano con le lunghe lance; di tanto in tanto, quando l'impeto degli attaccanti rallentava,reagivano con improvvise sortite, e altre volte davano le spalle agli avversari fingendo di arretrare, per poi girarsi all'improvviso e contrattaccare.

Ogni volta che un reparto greco sembrava vacillare sotto la marea umana che cercava di travolgerli, il flauto spartano suonava la canzone di guerra, e il gruppo di Corinzi o Tegeati veniva sostituito dai mantelli porpora e dagli scudi con la Lambda, e la situazione si capovolgeva.
I cadaveri degli assalitori continuavano ad ammassarsi, e chi veniva da dietro, prima di affrontare il muro di metallo dei greci, doveva letteralmente scalare il cumulo di corpi dei propri compagni.

Al termine del primo giorno, Serse era furioso ed allibito: due schiere del proprio esercito erano state praticamente annientate, nonostante la schiacciante superiorità numerica, mentre i greci avevano subito perdite risibili.
Il secondo giorno Serse fece scendere in campo l'esercito persiano vero e proprio, e fece in modo che alla testa ci fossero reduci di a Maratona, o parenti ed amici dei 7.000 caduti, ma nemmeno questa mossa sortì alcun esito: i difensori del passo distrussero l'avversario senza troppo faticare.

A questo punto, suo malgrado, si trovò costretto a giocare la propria carta decisiva, l'asso nella manica cui mai e poi mai avrebbe pensato di dover ricorrere: mandò all'attacco i 10.000 Immortali, guidati dal loro comandante Idarne, veterano di mille battaglie.
Erano un reparto di soldati accuratamente selezionato, così chiamato perché il loro numero rimaneva sempre immutato, non uno di più né uno di meno: tutti i caduti venivano sostituiti da un numero uguale di nuovi adepti.
I suoi componenti erano scelti solo tra i migliori esponenti della gioventù persiana, erano quasi tutti di sangue nobile, ed uno dei criteri di scelta, oltre alle doti di combattenti, era rappresentato dall'aspetto fisico e dal portamento.
Erano il fior fiore dell'esercito imperiale, il reparto meglio armato, meglio addestrato, più disciplinato... ma non potevano, in ogni caso, competere con i greci ed in particolare con gli spartani, forgiati dalle battaglie continuamente combattute tra le polis, pesantemente corazzati e schierati a falange, un tipo di combattimento del tutto sconosciuto agli orientali, che conoscevano soltanto l'assalto all'arma bianca in campo aperto, e spesso decidevano le loro battaglie con la cavalleria, che nelle aspre vallate della Grecia era pressoché inutile.

Leonida sapeva che Serse aveva particolarmente a cuore l'incolumità ed il prestigio dei suoi Immortali, e quindi quando li vide avanzare cambiò strategia: non più difesa passiva, ma un attacco diretto, per non dare tregua ad un'unità molto ben addestrata ma che da tempo non si trovava coinvolta in una vera battaglia; diede anche ordine ai suoi di mirare al volto, cercando al limite di sfigurare l'avversario se non si poteva ucciderlo, visto che gli Immortali tenevano particolarmente al loro aspetto, che era curatissimo ed impeccabile anche in battaglia; confidava che Serse, vedendo le proprie truppe predilette incastrate in un confronto tremendo, all'ultimo sangue, non avesse il coraggio di rischiarli sino all'ultimo uomo... e le cose andarono proprio così.
Gli Immortali rappresentarono l'avversario di gran lunga più probante per i Greci, rispetto a cui avevano un vantaggio notevole in termini di numero e freschezza, ma furono comunque respinti: non appena Serse si rese conto che i suoi Diecimila non stavano sfondando, ed anzi rischiavano di pagare un prezzo salatissimo in termine di perdite umane, li richiamò indietro.

Anche il secondo giorno si stava risolvendo in una incredibile disfatta per Serse, il suo esercito non era riuscito a sfondare nemmeno utilizzando le truppe migliori: ad un tratto, però, la storia subì una svolta improvvisa e decisiva: Serse fu contattato da Efialte, un greco della Malide, zona soggetta da tempo al dominio spartano, che tradì i difensori delle Termopili indicando a Serse un sentiero usato dai pastori della zona, che aggirava il passo e avrebbe permesso alle truppe imperiali di prendere le truppe di Leonida alle spalle: da allora, e ancora oggi, in greco il termine Efialte è usato come sinonimo di "traditore".
Serse inviò nottetempo i Diecimila lungo il sentiero, guidati dal loro comandante Idarne: arrivati sulla cima, i persiani si imbatterono in un gruppetto di volontari Focesi, che Leonida aveva inviato a tenere d'occhio il passaggio; i Diecimila, ancora scossi dalla pesante sconfitta, non riuscendo a distinguere se i difensori del sentiero fossero spartani o no, evitarono un assalto diretto e li tempestarono di frecce; ai Focesi non restò che abbandonare la propria posizione, e correre a perdifiato da Leonida per comunicargli la terribile notizia.

La battaglia era finita, la sconfitta certa: farsi intrappolare tra due fuochi nello stresso passo delle Termopili significava lasciarsi massacrare, ma d'altronde abbandonare quella vantaggiosa posizione voleva dire dover affrontare l'esercito persiano in campo aperto, senza alcuna possibilità di sopravvivere a lungo: l'unica scelta rimasta era ritirarsi, ed abbandonare il campo di battaglia.
Gli Spartani, però, non si ritiravano mai, nè mai lo avrebbero fatto in futuro: per di più Leonida era partito già consapevole di dover sacrificare la vita per adempiere alla profezia dell'oracolo e salvare Sparta.

Egli annunciò quindi agli alleati che Sparta sarebbe rimasta e avrebbe combattuto, fino all'ultimo uomo: tutti gli altri contingenti erano liberi dal loro giuramento di fedeltà e potevano tornare a casa... e così fecero, con l'unica eccezione dei pochi superstiti dei 700 soldati inviati da Tespi, una delle più solide alleate di Sparta, che scelsero di rimanere fino alla fine.
Leonida diede ordine di tornare a casa anche a due dei suoi, feriti in modo tale da pregiudicarne l'efficacia in combattimento; i due implorarono con tutte le forze il Re di lasciarli combattere per ottenere la più gloriosa delle morti, l'ambizione massima di ogni spartano, ma Leonida fu irremovibile: era necessario che qualcuno tornasse a Sparta a raccontare agli Efori e al Consiglio come si erano svolte le cose, a portare le ultime indicazioni di Leonida e a fornire tutte le informazioni sull'esercito persiano che avrebbero potuto essere utili nella futura, e decisiva, battaglia campale.

I due obbedirono agli ordini, come sempre, e furono gli unici superstiti spartani delle Termopili: uno dei due, non appena ebbe terminato il proprio resoconto, si suicidò, per la vergogna di aver abbandonato il campo di battaglia.

Nel frattempo, alle Termopili, Leonida abbandonò il muro focese, e si dispose con i superstiti su una collinetta poco più indietro: nell'attesa che arrivassero gli eserciti passò in rassegna tutti gli uomini rimasti, parlando brevemente con ognuno di loro, congratulandosi, ringraziandoli per averlo accompagnato; al mattino li esortò a fare una colazione abbondante, perché quella sera "avrebbero cenato all'inferno".

Ormai non c'era più nessun passaggio obbligato da difendere: la battaglia si sarebbe svolta in campo aperto, e quindi Leonida decise di rinunciare alla tattica adottata finora: gli Spartani sarebbero caduti attaccando, lanciando l'ultima carica della loro vita.
Non appena gli eserciti di Serse si avvicinarono, e dopo aver rifiutato anche l'ultima offerta di resa del Re dei Re, i greci partirono all'attacco: fu un assalto furioso, che vide cadere i persiani come mosche, compresi due fratelli dell'Imperatore.
Ma tra i primi a cadere, tra gli Spartani, fu proprio Leonida, che aveva guidato l'attacco in prima fila: si dice che i suoi commilitoni si siano lanciati come furie per recuperarne il cadavere, e siano riusciti a riconquistarlo quattro volte prima di perderlo definitivamente; molti di loro avevano perso le armi, e combattevano soltano a mani nude o usando lo scudo e l'elmo.

Prima della fine, gli ultimissimi superstiti, allo stremo delle forze, riuscirono ancora a raccogliersi in cima alla collinetta, disponendosi a falange un'ultima volta: Serse, pur di non perdere altri uomini, ordinò che fossero finiti con frecce e lance, senza avvicinarsi a loro.
Dopo la fine della guerra, nel punto in cui caddero gli ultimi Lacedemoni fu eretto un monumento commemorativo; 2500 anni dopo, nel 1955, fu rimesso a posto ed ingrandito, e a tutt'oggi sul passo delle Termopili domina il monumento agli Spartani, sormontato da una statua di Leonida.
In quella zona sono state trovate punte di freccia persiane di quell'epoca, in numero impressionante, anche in epoca recente.

DOPO LE TERMOPILI

Da un punto di vista strettamente militare, Serse non perse la guerra alle Termopili: ci rimise parecchie migliaia di uomini, ma quel che è peggio, il suo orgoglio.
L'esercito persiano, partito con la convinzione di vincere facilmente, forse senza combattere, rimase letteralmente sconvolto emotivamente da quello che poche migliaia di greci gli avevano fatto soffrire: la guerra era ancora tutta da combattere, ma il morale dei persiani non poteva essere più basso, mentre i greci erano sempre più carichi di odio e voglia di combattere: il cadavere di Leonida fu decapitato, e la sua testa utilizzata da Serse come trofeo.

Serse dilagò con il suo esercito nell'Attica, mettendo a ferro e fuoco le città che avevano combattuto alle Termopili; Tebe si salvò, perché passo con tutto il proprio esercito dalla sua parte (compreso il piccolo contingente che aveva combattuto con Leonida), mentre il trattamento più duro fu riservato a Tespi, letteralmente cancellata dalla faccia della terra.

E Atene? Beh, l'oracolo aveva detto che si sarebbero salvati soltanto ricorrendo a "mura di legno", e l'opinione comune era che questo significasse arroccarsi all'interno della città e resistere all'assedio: Temistocle, però, era di parere contrario, ed era ancora convinto che le sorti della Grecia si sarebbero decisi con una battaglia navale.
Utilizzò diabolici stratagemmi, che meriterebbero di essere raccontati in un libro a parte, inviando veri e falsi messaggeri qua e là (compresi alcuni a Serse, che, se scoperti, gli sarebbero costati la vita), approfittando del periodo di tregua concessogli dai difensori delle Termopili: riuscì infine a convincere tutti i suoi concittadini ad abbandonare la città sulle navi, e quindi fece in modo di attirare la flotta di Serse in un punto favorevole a quella greca.
Nel frattempo, l'esercito imperiale era arrivato ad Atene, saccheggiandola e bruciandola, uccidendo i pochi che vi erano rimasti, soprattutto vecchi e malati, ed accanendosi in particolare sui monumenti che celebravano la vittoria a Maratona.

La vera svolta decisiva della guerra, da un punto di vista strategico, avvenne di fronte all'isola di Salamina, qualche tempo dopo le Termopili: le navi persiane godevano di una superiorità numerica schiacciante, nonostante avessero subito gravi perdite per una tempesta, ed erano più grandi, con più uomini a bordo, più veloci.
Le navi greche, in compenso, erano molto più maneggevoli, e soprattutto i suoi nocchieri conoscevano molto meglio l'angusto braccio di mare dove si sarebbe svolta la battaglia, stretto tra la costa e l'isola lunga e stretta, col mare agitato, correnti che cambiano continuamente, secche che compaiono all'improvviso accanto a pozze di mare profondo.
La battaglia navale fu un trionfo per la Grecia, per Atene, per Temistocle: Serse, dal suo trono d'oro posizionato su una collina, fu costretto ad assistere allo spettacolo della sua flotta distrutta quasi totalmente.
Al termine della battaglia, Temistocle mandò un altro messo a Serse, informandolo che i suoi ponti di barche sull'Ellesponto stavano per essere distrutti: con la flotta decimata e senza più i due ponti, senza possibilità di essere rifornito, il suo immenso esercito avrebbe finito per rimanere incastrato in Grecia, morendo di fame o logorato dalle continue battaglie con gli irriducibili greci.
Serse non poteva correre questo rischio, e abbandonò la Grecia con parte dell'esercito e tutte le navi rimaste, lasciando Mardonio a capo delle truppe residue, con l'ordine di acquartierarsi, passare l'inverno e riprendere la campagna l'anno dopo.
Erodoto racconta che il rientro di Serse fu umiliante e disastroso, con un esercito abbattuto nel morale e falcidiato dalla mancanza di rifornimenti.

Mardonio passo l'inverno in Tessaglia, e si ripresentò pronto a combattere non appena scoccò la bella stagione successiva: per la battaglia campale decisiva, che si sarebbe svolta a Platea, aveva con sè all'incirca 300.000 uomini, comprese svariate decine di migliaia di greci Tessali, Tebani, Macedoni e di altre città che erano passate dalla parte di Serse.
I Greci, però, risposero mettendo in campo tutte le loro forze: Atene, come già a Maratona, schierò tutto il proprio esercito; Sparta fece lo stesso, e non era mai accaduto prima di allora.
Tutti e 10.000 gli Spartani in grado di combattere si schierarono a Platea, comandati da Pausania, l'altro Re Spartano insieme a Leonida, alla guida dell'esercito greco; si portarono in battaglia anche 35.000 iloti, che per la prima volta avevano l'onore di combattere accanto ai loro padroni (ma si dice che la scelta non fosse dettata nè dalla necessità né dalla voglia di ricompensarli, ma semplicemente dal fatto che, non essendoci più uomini in armi a Sparta, non volessero rischiare una rivolta degli schiavi).
In totale i Greci schierarono circa 35.000 opliti e 110.000 combattenti in tutto, comprendendo anche schiavi e scudieri.

I due eserciti si fronteggiarono per dodici giorni, limitandosi a scaramuccie, perché il campo di battaglia era infido, e qualsiasi mossa falsa poteva essere pagata a caro prezzo: i Greci si trovavano su una altura, i Persiani in pianura, ma tra di loro c'era un fiume che nessuno dei due eserciti voleva attraversare per primo, per non rischiare di trovarsi spalle al muro.
Mardonio, però, disturbava i rifornimenti di cibo e acqua degli avversari per costringerli a fare la prima mossa, cosa che, a forza di insistere, avvenne: nella notte precedente al dodicesimo giorno Alessandro, Re di Macedonia, alleato dei Persiain, andò di nascosto nel campo greco per avvertirli che il giorno dopo Mardonio avrebbe attaccato. I greci si mossero per primi, cercando di portarsi in posizione più favorevole, ma le condizioni del terreno fecero sì che il loro si spezzasse in tre tronconi: gli Ateniesi a sinistra, gli Spartani sull'estrema destra e gli altri alleati greci, guidati dai Tegeati, al centro.
Era l'occasione che Mardonio stava aspettando, e tentò di sfruttarla subito: mandò i suoi soldati greci, guidati dai Tebani, contro gli Ateniesi, e si scagliò con il grosso del suo esercito contro gli Spartani.

Da un punto di vista tattico era la soluzione ideale: i Tebani e gli altri greci passati con l'Impero impegnavano duramente gli Ateniesi e l'ala sinistra, tagliandoli fuori dalla battaglia, mentre i Tegeati erano partiti alla carica troppo presto e troppo velocemente, distanziando gli Spartani e rimanendo anch'essi lontani dal punto cruciale, l'ala destra, dove gli Spartani si trovavano ad affrontare da soli l'impeto dell'esercito persiano.

Non appena l'esercito imperiale fu a tiro, dalle linee spartane si staccò un uomo, che da solo si lanciò contro gli avversari come una furia, facendo una piccola strage prima di venire abbattuto: era l'altro superstite delle Termopili, che aveva deciso di lavare in questo modo la vergogna di non essere morto con i suoi commilitoni e Leonida; gli altri spartani, però, non la presero bene: al termine della battaglia si decise che il suo nome venisse cancellato da tutti gli archivi, e il suo gesto marchiato per sempre come vergognoso e blasfemo: l'azione individuale, per la gloria o per l'orgoglio, a Sparta non veniva scusata o tollerata. Mai.

La battaglia fu a senso unico: la superiorità numerica schiacciante dei persiani non poteva nulla contro la forza irresistibile dell'esercito spartano, bramoso di vendicare la morte di Leonida: l'esercito persiano venne distrutto quasi totalmente, e lo stesso generale morì sotto i colpi degli Spartani.

Fu l'ultima volta che la Grecia dovette fronteggiare un rischio di invasione da parte dell'Impero, che continuò a tentare una vendetta, ma non riuscì mai più a mettere in pericolo l'indipendenza della Grecia: anzi, poco più di 150 anni dopo, proprio un greco, Alessandro Magno il Macedone, avrebbe posto fine a quell'immenso Impero.
La sconfitta di Serse rappresentò un punto di svolta cruciale nella storia della Grecia, che nel secolo successivo vide sbocciare quella che noi chiamiamo "età classica": in un periodo brevissimo, circa un centinaio d'anni, la Grecia regalò al mondo l'età di Pericle, Socrate, Aristotele, Platone e gli altri grandi filosofi, Sofocle ed Euripide, Erodoto e Tucidide, il Partenone, Ippocrate... praticamente il nucleo stesso della nostra civiltà, venuto alla luce grazie alla vitalità e ai contrasti tra le polis libere, che probabilmente non si sarebbe sviluppato in modo così esplosivo e rapido all'interno dell'impero persiano.

Da un punto di vista strettamente militare le battaglie cruciali furono quelle di Platea e, ancor più, di Salamina, ed il genio di Milziade e Temistocle fu probabilmente più determinante delle abilità strategiche dei condottieri in battaglia... ma, da un punto di vista emotivo e "morale", nessun evento potrà mai essere paragonato alla battaglia delle Termopili, all'ostinata resistenza di un Re e dei combattenti più formidabili che la Storia abbia mai conosciuto, che tennero testa ad un esercito infinitamente più grande, e scelsero di morire piuttosto che ritirarsi.
Trecento uomini a cui diede voce il poeta Simonide, componendo i versi che ancora oggi, dopo 2500 anni, campeggiano sul monumento a loro dedicato:

O xein', angellein Lakedaimoniois hoti teide
keimetha tois keinon rhemasi peithomenoi.

Straniero, và a dire agli Spartani
che in questo luogo, in obbedienza alle loro leggi,
noi riposiamo.



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lunedì, marzo 19, 2007


Da Gazzetta.it:

MILANO, 19 marzo 2007 - Stava per rispondere alle domande dei giornalisti che lo aspettavano fuori dal suo ufficio ma poi, dal bar vicino, ha sentito qualcosa che proprio non gli è piaciuto. Massimo Moratti ha quindi abbandonato taccuini e microfoni per andare a rispondere un signore seduto a un tavolino del locale che, tra insulti e accuse varie, aveva definito "uno scudetto di cartone" quello che l'Inter ha vinto lo scorso anno a tavolino.

"Si tolga lo scudetto di cartone, se lo tolga", gli ha urlato l'uomo, circa 40 anni, in giacca e cravatta. "Mi vuole picchiare?", ha poi detto quando ha visto Moratti avvicinarsi a lui. "No, le dico solo che non è educato quello che sta facendo", è stata la risposta di Moratti. "Io sono scostumatissimo, faccio il gesto dell'ombrello e mando a fare in c... Ronaldo...", ha ribattuto l'uomo, con chiaro riferimento al comportamento del presidente nerazzurro durante il derby. L'intervento del proprietario del bar non è servito a calmare l'uomo, che ha replicato che "ognuno si deve contenere nelle sedi opportune e poi io sono sul suolo pubblico". "Bè, allora faccia quello che le pare", ha risposto un Moratti sempre più scocciato, che all'ennesima provocazione ("Mi faccia anche intercettare"), ha definitivamente perso la calma: "Se lo metta in bocca il telefono", ha detto prima di andare a parlare con i giornalisti.

(cliccando sul titolo si può vedere un video con parte della scena)

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mercoledì, marzo 14, 2007

Due canzoni...

GRANDADDY - SADDEST VACANT LOT IN ALL THE WORLD


She's in the kitchen,
Crying by the oven
It seems she really loved him

He's so drunk he's
Passed out in a Datsun
That's parked out in the hot sun
In the saddest vacant lot in all the world

Boldly going
Where he rarely knows
But he'll miss her when he goes

What a shame
As she drifts out of reach
While he's still drunk asleep
In the saddest vacant lot in all the world


FLAMING LIPS - PLASTIC JESUS

Well, I don't care if it rains or freezes,
Long as I have my plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
Through all trials and tribulations,
We will travel every nation,
With my plastic Jesus I'll go far.


{Refrain}
Plastic Jesus, plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
Through all trials and tribulations,
We will travel every nation,
With my plastic Jesus I'll go far.

I don't care if it rains or freezes
As long as I've got my Plastic Jesus
Glued to the dashboard of my car,
You can buy Him phosphorescent
Glows in the dark, He's Pink and Pleasant,
Take Him with you when you're travelling far

{Refrain}

I don't care if it's dark or scary
Long as I have magnetic Mary
Ridin' on the dashboard of my car
I feel I'm protected amply
I've got the whole damn Holy Family
Riding on the dashboard of my car

{Refrain}

You can buy a Sweet Madonna
Dressed in rhinestones sitting on a
Pedestal of abalone shell
Goin' ninety, I'm not wary
'Cause I've got my Virgin Mary
Guaranteeing I won't go to Hell

{Refrain}

I don't care if it bumps or jostles
Long as I got the Twelve Apostles
Bolted to the dashboard of my car
Don't I have a pious mess
Such a crowd of holiness
Strung across the dashboard of my car

{Refrain}

No, I don't care if it rains or freezes
Long as I have my plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
But I think he'll have to go
His magnet ruins my radio
And if we have a wreck he'll leave a scar

{Refrain}

Riding through the thoroughfare
With his nose up in the air
A wreck may be ahead, but he don't mind
Trouble coming, he don't see
He just keeps his eyes on me
And any other thing that lies behind

Plastic Jesus, Plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
Though the sun shines on his back
Makes him peel, chip, and crack
A little patching keeps him up to par

When pedestrians try to cross
I let them know who's boss
I never blow my horn or give them warning
I ride all over town
Trying to run them down
And it's seldom that they live to see the morning

Plastic Jesus, Plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
His halo fits just right
And I use it as a sight
And they'll scatter or they'll splatter near and far

When I'm in a traffic jam
He don't care if I say Damn
I can let all sorts of curses roll
Plastic Jesus doesn't hear
For he has a plastic ear
The man who invented plastic saved my soul

Plastic Jesus, Plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
Once his robe was snowy white
Now it isn't quite so bright
Stained by the smoke of my cigar

God made Christ a Holy Jew
God made Him a Christian too
Paradoxes populate my car
Joseph beams with a feigned elan
From the shaggy dash of my furlined van
Famous cuckold in the master plan

Naughty Mary, smug and smiling
Jesus dainty and beguiling
Knee-deep in the piling of my van
His message clear by night or day
My phosphorescent plastic Gay
Simpering from the dashboard of my van

When I'm goin' fornicatin
I got my ceramic Satan
Sinnin' on the dashboard of my Winnebago Motor Home
The women know I'm on the level
Thanks to the wild-eyed stoneware devil
Ridin' on the dashboard of my Winnebago Motor Home
Sneerin' from the dashboard of my Winnebago Motor Home
Leering from the dashboard of my van

If I weave around at night
And the police think I'm tight
They'll never find my bottle, though they ask
Plastic Jesus shelters me
For His head comes off, you see
He's hollow, and I use Him for a flask

Plastic Jesus, plastic Jesus
Riding on the dashboard of my car
Ride with me and have a dram
Of the blood of the Lamb
Plastic Jesus is a holy bar




Scaricat... ehm.... andate a comprarle!!!

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Back to da Hood...

Ed eccoci di ritorno dalla white week!!!

alcune foto già postate su myspace, casomai vi interessassero...

alla prossima!

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sabato, marzo 03, 2007

Those were the days of our lives...

Prima di partire per la WHITE WEEK vi lascio qualcosina da sfogliare durante la settimana...

Il mio LIVE SPACE su MSN, in cui ho messo una piccola ma significativa selezione delle foto che avevo sul computer, annata 2006 (e inizio del 2007)... prosit!!!

Ce la sentiamo al mio ritorno!

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giovedì, marzo 01, 2007

Quando la realtà è dura da accettare

"Senti Luca,tu che sai tutto,ma la PALLACANESTRO è uno sport???"

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