martedì, febbraio 27, 2007

E dunque ci siamo.... Finalmente anche io sono stato autorizzato a scrivere su sto belin di blog ahahahhahahahaha. per prima cosa vorrei un minuto di raccoglimento per la vittima della furia sessuale del Talismano in quel del jasmine. Attendo testimonianze dirette soprattutto dei racconti ancestrali post amplesso. Per ora LOVE

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venerdì, febbraio 23, 2007

BELLE NOTIZIE DAL MONDO:

-Gascoigne viene invitato ad una festa organizzata da Nelly Furtado, si presenta in condizioni alcoliche pessime, va al tavolo della bottanazza, la insulta e poi crolla ubriaco di fronte a lei...
E' un bel Gazza, soprattutto perché è una scena che avrei visto benissimo con Carlitos Brigante De Castelli come protagonista.


-nel frattempo, in quel di Zena, "A Genova il primo camallo trans, finisce mito scaricatore":
(ANSA) - GENOVA, 23 FEB - Un altro mito finisce: quello dello scaricatore di
porto genovese, il nerboruto camallo. Infatti ora i lavoratori della Culmv,
la compagnia unica dei portuali, annoverano tra loro anche un transessuale,
Valentina gia' Marco C., 31 anni. 'Altre persone hanno perso il posto di
lavoro quando hanno cambiato il loro modo di essere, ma io sono stata
fortunata', ha detto Valentina, che continua a fare lo stivatore.

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giovedì, febbraio 22, 2007

Non voglio esprimere un parere sulla caduta del governo(anche perchè sono ancora sotto i postumi della sbronza di festeggiamento,non sarei obiettivo)...però mi fa sorridere questa news:

"Per me l'espulsione di Franco Turigliatto e' francamente inevitabile". Lo ha detto il ministro della Soidarieta' sociale, Paolo Ferrero, parlando con i giornalisti al Senato, a proposito del senatore del Prc che non ha votato a favore delle comunicazioni di Massimo D'Alema sulla politica estera del governo.

Ah....proprio il ministro della solidarietà sociale....com'è solidale....

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martedì, febbraio 20, 2007

Quando andavo alle medie io..ero l'alternativo perchè fumavo già e sapevo già impennare con lo scooter.....scooter....era un Ciao....cmq,era già tanto che mi fumassi un pacchetto di MS International al giorno e,agli occhi degli altri bambini,ero abbastanza un capetto(sennò con il cazzo che una figa coma la Lidia mi cagava)...già però avevo difficoltà a farmi vendere le siga dal tabaccante che mi guardava con un certo disprezzo....oggi però....



Genova, sorpreso con 7 kg di hashish a spacciare davanti a una scuola: arrestato
Sono in corso accertamenti per stabilire la provenienza e la destinazione della droga
Genova, 20 feb. - (Adnkronos) - E' stato sorpreso davanti alla scuola media ''Barabino'' di Genova-Sampierdarena con 7 kg di hashish pronto da smerciare. D.G., 40enne incensurato, e' stato arrestato dai carabinieri del comando provinciale genovese. L'uomo aveva con se' anche un bilancino di precisione e circa 6 mila euro. Sono in corso accertamenti per stabilire provenienza e destinazione della droga.


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venerdì, febbraio 09, 2007

E' morta Anna Nicole Smith...vogliamo ricordarla così




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"Genova la superba ama essere guardata dall'alto. L'arrivo in
aereo svela il punto debole della città e la molla di una civiltà
millenaria. Genova è una città fragile, sottile, minacciata. Lunga
quaranta chilometri, larga al massimo ottocento metri, stretta fra un
mare profondo e montagne crudeli. È un corpo debole che ha potuto
compensare l'insicurezza soltanto con una sconfinata volontà di
potenza e un'intelligenza acuminata, come certi geni che avevano
passato l'infanzia nel letto."

E' l'incipit di un approfondimento di Curzio Maltese su Repubblica.
Sulle osservazioni e le percepibili "sviolinate" di carattere ideologico ovviamente sono in totale disaccordo, ma è ben scritto e imho merita una lettura.



Per giunta, Genova è da sempre divisa in
due. Esiste la città bassa del porto, dove sta la fatica, il sudore,
la puzza di bastimenti inasprita dalla macaja, lo scirocco genovese,
le puttane e i traffici d'ogni tipo. Qui monta come la spuma delle
onde la città ribelle, esplode da secoli la rivolta che comincia con i
cortei di massa e finisce ogni volta nella fuga solitaria per carrugi,
i vicoli sopra il porto, "viscere del mondo", per scappare alle
mazzate di gendarmi, poliziotti, carabinieri.

Questa è la città più radicale d'Italia, la patria del Risorgimento,
del socialismo e della Resistenza, il cuore dei moti del '60 contro il
governo Tambroni, la culla delle Brigate Rosse e dei no global. Ed
esiste la città alta, la più aristocratica e conservatrice d'Italia.

La Genova dei quaranta palazzi nobiliari di via Garibaldi, invidia
delle corti europee, eletti "patrimonio dell'umanità" dall'Unesco, ma
in concreto proprietà delle antiche famiglie, forzieri di marmo e oro
con tesori incredibili; ancora, la Genova borghese di Albaro e
Castelletto con dimore austere all'esterno ma dentro sfarzi, arazzi,
pinacoteche e giardini smeraldo da far impallidire la collina torinese
o Brera o le ville romane.

Dalla città alta le oligarchie controllano le rivolte e i traffici del
porto e badano che nessuno prenda troppo potere in città. Genova è
l'unica capitale italiana a non aver mai avuto una signoria. Ci ha
provato Simon Boccanegra, sette secoli fa, ed è finita in melodramma.
Le dieci famiglie che contano vigilano l'una sull'altra e anche
all'interno, come i Messina, i primi armatori del porto. Se chiedi
d'incontrarne uno, ti ricevono in otto in un ufficio circolare, con le
scrivanie affiancate di padri e figli, forse perché si vogliono bene e
magari per evitare che uno s'allarghi troppo. Il genovese dotato di un
esubero d'iniziativa può sempre cercare fortuna a Milano o a Parigi,
come il banchiere Alessandro Profumo o l'immobiliarista Carlo Puri
Negri o l'architetto Renzo Piano, purché non rompa le scatole qui. Il
poeta Edoardo Sanguineti commenta: "In nessuna città vale così tanto
il detto: nessuno profeta in patria. Le tre celebrate glorie genovesi,
Cristoforo Colombo, Giuseppe Mazzini e Niccolò Paganini, rispetto alla
città più che esiliati erano fuggiaschi".

La borghesia conserva riti immutabili in circoli chiusissimi. Si può
venire ammessi col voto dei soci, biglie bianche e nere, e c'è chi
aspetta le bianche da trent'anni. Quasi ogni lunedì sera la mappa del
potere si ritrova in galleria Mazzini, un tempo meta diletta di
Montale e Calvino, e cena al ristorante Europa. Alle dieci precise si
sgomberano i tavoli e parte lo scopone. Da un lato i Garrone e gli
Anfossi, dall'altro il presidente dei commercianti Paolo Odone e il
presidente della Regione Claudio Burlando. Giocano e decidono i
destini della città. L'ultima partita, lunedì scorso, si è conclusa
con la vittoria di Burlando, che ha imparato dal padre camallo, e la
decisione di far fuori il presidente della fondazione Carige, Vincenzo
Lorenzelli, piazzato dall'Opus Dei, ciarliero e presenzialista. Quando
uno fa così, nelle famiglie genovesi si dice che "si comporta da
milanese", il peggior insulto. Lorenzelli si è dovuto dimettere già
martedì pomeriggio, scatenando la bufera.
Se a Milano politica e affari hanno divorziato, a Genova fanno ancora
sistema e lo fanno a sinistra.

Gianni Baget Bozzo, consigliere di Craxi ereditato da Berlusconi,
considera questo la sentina di tutti i mali. "Il declino cittadino,
l'incapacità genovese di aprirsi e legarsi al modello padano, nasce da
questo ferreo controllo che la sinistra, con la complicità delle
partecipazioni statali, ha esercitato sull'economia ligure". Ma a
parte la difficoltà d'immaginarsi l'Appennino disseminato dei
capannoni industriali lombardo-veneti, bisogna ammettere che il "patto
scellerato" fra politica e affari ha evitato negli ultimi vent'anni
una catastrofe sociale. Fra gli '80 e i '90, la chiusura delle grandi
fabbriche ha cancellato centomila posti di lavoro e duecentomila
abitanti. Il porto, le banche, le botteghe e i bilanci delle famiglie
erano sull'orlo della bancarotta. "La politica ha fatto il suo
mestiere" rivendica Burlando, protagonista della svolta prima come
sindaco e poi da ministro dei Trasporti "Il porto in dieci anni ha
quintuplicato il volume di merci, da 300 mila a più di un milione e
mezzo di containers.

Abbiamo impedito che lo Stato chiudesse tutti gli stabilimenti e ora
il polo Finmeccanica fa utili e riassume. La disoccupazione è
dimezzata e il turismo segna primati su primati. In più, i soldi degli
eventi, dalle Colombiadi del '92 al G8 del 2001 al 2004 della Cultura,
sono finiti nel restauro della città, che è bellissima, e non in
mazzette. Dove sarebbe l'assistenzialismo?".

I risultati spiegano la tenuta delle sinistre, la rinascita della
città, la ritrovata voglia di far figli dopo anni di record di
denatalità e anche di divertirsi nella brulicante "movida" del
venerdì. Ma ora che è passato il pericolo dell'"estinzione di Genova",
annunciata dai sociologi del malaugurio, si tratta di guardare al
futuro e qui i conti tornano meno.

Sui delicati equilibri cittadini si sono abbattute in pochi mesi tre
novità cui i genovesi, secondo indole, guardano con diffidenza. La
prima è l'"affresco" di Renzo Piano per il porto, voluto dal sindaco
uscente Beppe Pericu e osteggiato dai potentati. La seconda novità è
l'assalto alla cassaforte della città, la Carige, che s'intravede
oltre le dimissioni di Lorenzelli, accusato dall'asse bipartisan che
l'ha liquidato (da Scajola a Pericu) di voler far entrare i francesi.
La paura è che la cassa di risparmio di Genova possa finire preda nel
grande risiko bancario europeo, ridotta a vassalla dei colossi
italiani, Unicredit e Intesa, o stranieri. Non si tratta soltanto di
proteggere le "palanche" ma anche l'identità cittadina. Genova è la
madre di tutte le banche, l'unica potenza che ha dominato il mondo,
dal 1550 al 1630 ("El siglo de los Genoveses" s'intitola il bel libro
di Felipe Ruiz Martin), senza un forte esercito o un grande stato alle
spalle, ma grazie al genio di un pugno di finanzieri.

La terza novità è l'asprezza dello scontro per la poltrona di sindaco,
soprattutto a sinistra. Alle primarie del 4 febbraio il perno della
politica cittadina, i Ds, arrivano spaccati in tre o quattro fazioni,
con il Correntone per la prima volta fuori e con Rifondazione, in
appoggio a Sanguineti, la maggioranza fedele alla battagliera Marta
Vincenzi ma con una fronda che avrebbe preferito il dalemiano Margini;
infine un cospicuo gruppo di militanti a fare il tifo per
l'indipendente Stefano Zara. Il "caso Genova" è la prova più concreta
di quello "sgretolamento della Quercia" di cui ha scritto Filippo
Ceccarelli. Berlusconi si è precipitato a tener comizi, fin da oggi,
in sostegno del candidato Enrico Musso.

Nel cuore e nella testa dei genovesi per primo arriva il porto perché
qui comincia sempre la storia di Genova. Dal porto antico e da un
progetto di Renzo Piano è scaturita la riscossa degli anni Novanta,
con il successo dell'Acquario, concepito per 700 mila presenze annue e
benedetto fin dal '93 dal doppio di visitatori. Dall'"affresco" di
Piano potrebbe cominciare la rinascita internazionale, con il
faraonico progetto di spostare verso e dentro il mare, sulle
piattaforme, centinaia di migliaia di metri quadri di banchine e
officine, perfino l'aeroporto, come a Osaka. "Genova è la perfetta
città di mare" spiega Piano dallo studio-serra di Arenzano "perché
città e golfo sono una cosa sola. E allora perché non far diventare il
mare vera città, costruendo sull'acqua?". Perché costa cinque miliardi
di euro? "Ma è un investimento sul futuro. Prendi una mappa d'Europa,
tira una riga da ogni angolo: Genova è al centro. Oggi le merci
viaggiano da Suez a Rotterdam, si spostano su rotaia e arrivano in
Baviera, Svizzera, Lombardia, con cinque o sei giorni di navigazione
in più perché qui al porto non c'è posto. Non è assurdo?".
"Un genio!" ha urlato la città intera all'inaugurazione, ma si è
affrettata a rinchiudere i disegni in un museo.

"Non l'hanno buttato via soltanto perché era gratis" sorride il Paride
Batini, il sagace e leggendario capo dei camalli, nove volte eletto in
assemblea "console della Compagnia", ovvero rappresentante dei
lavoratori del porto, autentica aristocrazia operaia che vanta
un'associazione fondata nel 1340. Un tempo i camalli erano novemila e
il "console" era il vero padrone del porto. Ora sono cinquemila, dopo
essere scesi a mille, lavorano dieci ore e se va bene portano a casa
1200 euro, salvo arrotondare col "gancio". Il "gancio" è l'uncino per
collocare i carichi che i camalli usano con secolare maestria.
Talvolta però capita che scivoli e tagli la pancia dei sacchi, con la
merce che cade e viene archiviata come "avariata" per l'assicurazione.
Il camallo esce dal turno con la giubba gonfia di caffè, salutando il
finanziere che si limita a lanciargli un "ti sei ingrassato, neh?".

Comunque, ci vuol più di qualche colpo di maglio per restituire alla
gente del porto l'antica abbondanza. Il console Batini non si rassegna
al declino. All'ombra di un ritratto di Lenin, intonso e ornato di
fiori, spiega la sua teoria: "Io sono comunista, ma pure pragmatico.
Ero contro la privatizzazione del porto e ammetto che ha funzionato.
Ora però non basta. Il porto non cresce più. Siamo in stallo di fronte
alla concorrenza di Marsiglia, Barcellona, Rotterdam. L'affresco di
Piano è l'occasione per tornare al porto emporio, dove non ci si
limita a parcheggiare i containers che passano e lasciano poca
ricchezza, ma si riparano le navi, si commercia, si produce. Qui le
professionalità ci sono tutte, da secoli. Manca soltanto lo spazio. I
padroni, gli armatori, i terminalisti, non vogliono cambiare perché
oggi guadagnano e comandano. Ma domani, con la globalizzazione, saremo
fregati tutti, noi e loro.
Genova o va per il mondo o non esiste".

Ed è curioso che il capo dei portuali, con la quinta elementare e il
genovese unica lingua ("purissima, i camalli sono gli unici a
conservarla" osservano i filologi dell'Università) giunga alle
conclusioni del più colto storico del Mediterraneo, Fernand Braudel:
"Fabbrica, ma per gli altri; naviga, ma per gli altri; investe, ma
presso gli altri. Genova senza il mondo non può vivere". Ma, come dice
Batini, ci sono i padroni sulle barricate al fronte del porto.
L'individualismo che ha permesso in passato le grandi imprese dei
capitalisti genovesi, oggi s'è rovesciato nel perenne mugugno, nella
maledizione dei veti incrociati. I promotori del progetto, a partire
da Pericu, si sbattono per trovare fondi. "Senza dimenticare" osserva
il sindaco "che il porto di Genova offre ogni anno allo Stato due
miliardi di tasse e sarebbe giusto e anche conveniente reinvestirne
una parte".

Gli oppositori plaudono e boicottano, in una città dove nessuno ama
esporsi e perfino Beppe Grillo, indomito persecutore delle
multinazionali del pianeta, sulle vicende cittadine si dilegua: "Non
farmi parlare del porto, per carità, che qui sono permalosissimi e ti
rendono la vita impossibile".

Il linguaggio del potere genovese è troppo raffinato per un cronista.
Ma quando il presidente dei commercianti Paolo Odone mi accoglie nella
sbalorditiva Sala Dorata di Palazzo Tobia Pallavicino ed esordisce: "A
Genova i poteri forti non esistono più", capisco anch'io che ne è il
rappresentante. Attacca l'elogio del "capolavoro di Piano" ma basta
attendere l'inevitabile "e tuttavia..." per assistere a una gragnuola
di critiche. Fino all'esequiale: "Non si farà mai. Ci sono altre
priorità, a cominciare dal terzo valico ferroviario". Allora salgo a
un altro palazzo, la sede della Erg petroli di Riccardo Garrone,
proprietario della Samp e di mezza città. Garrone detesta Odone e il
"suo mandante", Giovanni Berneschi presidente della Carige: "Il centro
da cui partono tutti i veti" dice secco. "E tuttavia..." neppure lui
si schiera a favore del nuovo porto e propone un suo "modello
americano": "Prendere quindici teste d'uovo e studiare le soluzioni
per il futuro. Non soltanto il porto ma anche il nuovo polo
tecnologico. Genova è una città magnifica e oggi attirare i cervelli è
una gran risorsa". Finché, esausti, non si prende l'ultima salita,
stavolta nel magnifico ascensore che porta alla collina delle vecchie
famiglie, quello dei versi di Giorgio Caproni ("Quando mi sarò deciso
d'andarci, in paradiso ci andrò con l'ascensore di Castelletto") .

Qui Beppe Anfossi, il padrone degli acquedotti, allievo del mitico
Giamba Parodi, chiarisce il mistero: "I soldi ci sono ancora ma s'è
persa la grandezza, il rischio, se vuole anche la ferocia dei capitani
d'una volta. Ch'erano feroci coi foresti ma generosi nei confronti
della città. La patria del capitalismo ora s'accontenta della
rendita".

Generosi? I ricchi genovesi? Massì, pensa a Giamba Parodi re delle
acque che viaggiava in "500" (con l'autista) per risparmiare, ma
pagava bene gli operai. Al vecchio Angelo Costa delle crociere che
prelevava una quota dalla busta paga, la investiva e alla fine si
presentava ai lavoratori con la sorpresa: un mazzo di chiavi. "Ti ho
comperato la casa. Se te li davo, li spendevi". Al più grande
banchiere della storia, Amadeo Peter Giannini, fondatore della Banca
d'America, che ha finanziato la ricostruzione di Genova nel '45. Per
tutta la vita ha teorizzato "un uomo non può voler possedere più di
mezzo milione di dollari" ed è morto con un capitale stimato in 489
mila 277 dollari, preciso e di parola come si conviene a un genovese.

Dov'è finita la grandezza dei genovesi? E' rimasta attaccata ai
palazzi, nella magnificenza dei musei, Palazzo Ducale, Palazzo Rosso e
Bianco, nei monumenti del centro storico più vasto d'Europa, nelle
ville patrizie che schiudono giardini smeraldo e pinacoteche e salotti
di fiammeggiante barocco, nei tanti tesori segreti di una città che
Cechov nel Gabbiano celebra come "la più bella del mondo, l'unica dove
si può cogliere uno spirito universale", illuminata in certe mattine
da tutta la luce del Mediterraneo. C'è voluto il coraggio dei padri,
gente "selvatica", per strappare alla violenza della natura tanta
civiltà e ricchezza, senza poter contare su un ettaro di pianura o un
campo di grano. Chissà quanto ne occorre oggi gli ultimi genovesi per
ripartire ancora una volta verso il nuovo mondo.


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giovedì, febbraio 01, 2007

Il Glande Fratello... e la Z di Zoro!

Non so quanti di voi lo conoscessero già, ma in rete è un "must": La Z di Zoro, lo spazio personale di un geniale blogger romano (Diego Bianchi) che, ormai da anni, fa scompisciare il mondo con i suoi report sul Grande Fratello, et cetera.

In questa stagione aveva deciso di rifiutarsi e di non ricominciare a guardare (e raccontare) il GF, ma il richiamo della foresta è stato troppo forte, e c'è ricascato... anzi, ha rilanciato, perché questa volta i suoi non sono i classici report per iscritto, bensì clamorosi videoriassunti di una decina di minuti ciascuno.

Godetevi quelli della prima e della seconda puntata.

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ARANYCSAPAT
Seconda Parte


--- I MONDIALI DEL 1954 ---
La quinta edizione dei Campionati del Mondo di calcio si disputa a Berna, ed è probabilmente il primo evento sportivo della storia a suscitare un entusiasmo davvero mondiale: l’organizzazione svizzera è, ovviamente, perfetta, e il supporto tecnico è all’avanguardia: per la prima volta le partite del Mondiale vengono trasmesse in televisione, e in tutta Europa la gente si accalca nei locali (o per le strade, dalle vetrine) dove c’è un televisore disponibile, per poter finalmente vedere, e non solo sentire per radio, le gesta dei campioni stranieri di cui tutti parlano quotidianamente ma che solo pochi eletti hanno avuto l’onore ed il privilegio di ammirare.



Il campo dei partecipanti è di livello altissimo, c’è un parterre di grandi squadre e grandissimi campioni davvero clamoroso, ma una sola favorita: mai come allora il pronostico era blindato in favore di una sola squadra, ovviamente l’Ungheria, che aveva fatto innamorare di sé tutto il mondo con i 4 anni di imbattibilità ed il trionfo all’Imperial Stadium di Wembley.

I primi sfidanti sono proprio la nazionale dei tre leoni: nonostante le due batoste, non ha perso la sua grinta, è stata ringiovanita e intende cogliere l’occasione della manifestazione mondiale per prendersi la rivincita sui magiari e su tutto il calcio continentale: non ci sono più Ramsey e Mortensen, ma il capitano Billy Wright è ancora al comando di una squadra ricchissima di talento, con i funambolici esterni Matthews e Tom Finney (che a Wembley non c’era, ma ha partecipato al massacro di Budapest) su tutti.
Le formazioni sudamericane sono considerate le migliori del lotto dopo la Squadra d’Oro, oltre ad essere le finaliste dell’ultimo confronto mondiale: i brasiliani vicecampioni del mondo si ritengono sempre e comunque la squadra più talentuosa, e si sentono in credito con la sorte dopo l’incredibile sconfitta nel ’50 di fronte al proprio pubblico; da quella assurda finale sono rimasti i vecchi leoni Ademir, Friaca, Baltazar e il capitano Bauer, a cui si affiancano nuovi, incredibili talenti come l’imprendibile ala Julinho (che trascinerà, pochi anni dopo, la Fiorentina verso il primo scudetto), i due inarrestabili terzini Niton Santos e Djalma Santos, il geniale fantasista Waldir Pereira, detto “Didì” (tre giocatori che saranno determinanti nei successivi trionfi mondiali degli auriverdes).
La Celeste è la formazione campione del mondo in carica, ed unisce la classica disciplina tattica a giocatori di classe sopraffina: la generazione che ha regalato il trionfo del ’50 è vicina al canto del cigno, ma gode di un’esperienza senza eguali tra le altre formazioni, ed è integrata da “sangue fresco” di gran classe: non c’è più Alcides Ghiggia, ma gli altri eroi del Maracanà ci sono tutti: Pepe Schiaffino, col suo classico numero 10; il regista e capitano Obdulio “el Jefe” (il capo) Varela, che più di ogni altro incarna la “garra churrua”, la celebre grinta del popolo uruguagio; il mastino nero Rodriguez Andrade, nipote della “maravilha negra” che aveva regalato all’Uruguay il primo titolo nel ’30, e che Puskas definisce il difensore più forte che abbia mai incontrato; i volti nuovi sono rappresentati dai talentuosi centrocampisti offensivi Borges, Hohberg, Miguez ed Abbadie.
Un gradino sotto alle favorite ci sono squadre dalla grande tradizione: l’Italia ha una sola superstar di livello mondiale, Boniperti, ben supportato da giocatori di valore come Muccinelli, Lorenzi e Galli, ma ovviamente la stampa di casa nostra magnifica le sorti della squadra (comunque da tutti ritenuta tra le favorite); anche la Germania ha un solo giocatore di prestigio internazionale, il grandissimo ed indimenticato Fritz Walter, supportato da due bomber come Rahn e Morlock, potentissimi fisicamente e temibili tiratori dalla distanza: tutti gli altri componenti della rosa, però, sono giganti di grande prestanza fisica ma di scarso rilievo tecnico; l’Austria, erede del Wunderteam che all’inizio del secolo aveva dominato il continente, è comunque temibile grazie al regista arretrato Ocwirk, che poi sarà stella in Italia con la maglia della Samp, e al difensore Ernst Happel, ma è un gradino sotto le altre; la Yugoslavia, forte del fatto di aver dovuto cedere le armi solo all’Aranycsapat alle Olimpiadi, e senza sfigurare, si presenta come la principale outsider grazie alla tecnica dei centrocampisti Boskov e Milutinovic, e all’agilità e velocità del guizzante centravanti Vukas.
Il livello altissimo delle pretendenti è dimostrato anche dalle assenze: la Spagna, quarta ai mondiali brasiliani ma eliminata dalla Turchia nelle qualificazioni, l’Argentina di Di Stefano, che paga la diaspora dei suoi migliori giocatori dopo una serrata, e soprattutto la Svezia, che a causa delle rigide regole interne sul professionismo non ha schierato Gren, Nordahl e Liedholm, fallendo la qualificazione.

Lo spettacolo non tradisce le attese: le partite sono vibranti, spettacolari, piene di grandi giocate e ricchissime di reti (è stato il mondiale con la miglior media gol/partita della storia: visto l’andazzo, quasi sicuramente lo resterà per sempre); la formula è curiosa: i gironi sono da 4 squadre, ma ogni squadra gioca solo due partite, evitando di incontrare una delle avversarie, e le teste di serie non si affrontano tra loro.

L’Ungheria nel proprio raggruppamento è testa di serie assieme alla Turchia: dopo un mese di preparazione in Italia, inizia in scioltezza, deliziando il pubblico con partite che sembrano esibizioni.
La prima uscita contro i carneadi della Corea del Sud è un pirotecnico 9-0: tripletta di Kocsis, doppiette di Palotas e Puskas, reti di Lantos e Czibor.
Gli avversari dell’esordio erano di livello irrisorio, ma nella seconda partita arriva subito la quotata Germania Ovest di Fritz Walter... che viene sommersa da un devastante 8-3: Kocsis-Puskas-Kocsis e al 21’ è già 3-0; “testina d’oro” domina la scena con 4 reti, Hidegkuti ne segna 2 e Puskas e Toth una a testa, ma i tedeschi non si arrendono mai, pestano senza ritegno e riescono a togliere di mezzo Puskas, messo KO da un durissimo intervento di Liebrich dritto sulla caviglia.
La Germania raggiunge la Turchia al secondo posto battendola 4-1: in caso di parità non conta la differenza reti (che è +4 per i Turchi, che hanno battuto 7-0 la Corea, e –2 per i tedeschi), ma si va allo spareggio, e i tedeschi passano agevolmente per 7-2.

Negli altri gironi il Brasile domina il Messico 5-0 ma pareggia a sorpresa con la Jugoslavia. I Plavi battono la Francia per 1-0, e si qualificano assieme ai carioca.
Il girone con Uruguay, Austria, Scozia e Cecoslovacchia sulla carta è il più equilibrato, con quattro compagini di grandissima tradizione, ma in realtà le due teste di serie si impongono agevolmente, senza subire reti: l’Uruguay vince 2-0 e 7-0, l’Austria 1-0 e 5-0.
L’Italia è testa di serie con l’Inghilterra, quindi evita di vedersela direttamente con gli albionici e deve affrontare solo Svizzera e Belgio: il passaggio del turno sembra una formalità, ma la prima giornata regala subito una clamorosa sorpresa, perché la mezzapunta Anoul guida i Belgi ad una insperata rimonta, costringendo gli inglesi sul 4-4; gli azzurri, però, ci mettono del loro, facendosi sconfiggere dalla Svizzera, che viene a sua volta facilmente battuta dall’Inghilterra; l’Italia si gioca tutto con il Belgio, vince 4-1 e va allo spareggio con i padroni di casa; ci si aspetta una vigorosa vendetta della prima, incredibile sconfitta, e invece ne arriva un’altra, ancora più pesante e netta, 4-1: ovviamente i giornali e i tifosi danno la colpa all’arbitraggio ritenuto “casalingo”, ma intanto i nostri se ne tornano a casa meritatamente, ed è la prima grande sorpresa del torneo.

I quarti di finale si aprono con l’incontro meno appetibile, che invece si rivela sorprendente: l’Austria è strafavorita contro la debole Svizzera, ma i padroni di casa partono fortissimo, e si portano sul 3-0 al 23’; la gara sembra segnata, ma gli austriaci segnano 5 gol in 10 minuti tra il 24’ e il 34’, e finiscono per imporsi 7-5.
Germania Ovest – Yugoslavia è una partita equilibrata e combattuta, i plavi giocano meglio ma la spuntano i tedeschi, grazie ad un clamoroso autogol e ad una rete segnata in netto fuorigioco.
Uruguay-Inghilterra è un confronto splendido e vibrante tra due squadre indomite: i maestri inglesi si battono come dei leoni e rimontano due volte il doppio vantaggio della Celeste, ma alla fine soccombono 4-2 dopo una durissima battaglia.
Per la Nazionale dei tre leoni è ora di cambiare, e di abbandonare l’ormai vetusto Sistema: ispirandosi all’Ungheria, gli inglesi si appropriano della difesa a 4 a zona, delle due punte, dei due esterni di centrocampo più deputati a costruire e crossare che a finalizzare, ma rimangono fedeli ai due centrali davanti alla difesa: nasce il 4-4-2, il “fourfourtwo” che resterà per decenni il modulo calcistico per eccellenza, e che permetterà ad Alf Ramsey, che aveva concluso una onorata carriera proprio in quel tremendo pomeriggio all’Imperial Stadium contro l’Ungheria, di guidare i suoi alla vittoria nel ’66.

La sfida dei quarti tra Ungheria e il Brasile è la più attesa, si rivela particolarmente “focosa”, e rimarrà nella storia come “la battaglia di Berna”… da intendersi in senso letterale, non solo sportivo.
La Squadra d’Oro, seppur priva di Puskas, al 7’ è già sul 2-0 (Hidegkuti e Kocsis); Djalma Santos su rigore accorcia le distanze, ma i magiari accelerano di nuovo, dominano il gioco e al 60’ chiudono la pratica con un rigore di Lantos; la partita è nervosa, combattuta senza esclusione di colpi, il clima è tesissimo, e il definitivo vantaggio ungherese da’ inizio al delirio: Bozsik e Djalma Santos si pestano e vengono espulsi, i brasiliani si danno alla caccia all’uomo (ad un certo momento Kocsis fugge sulla fascia inseguito da tre brasiliani che cercano solamente di spaccargli una gamba, e viene espulso anche Tozzi); segnano ancora Kocsis e Julinho per il 4-2 finale, ma al fischio dell’arbitro si scatena l’inferno.
Un fotografo che fa parte della delegazione brasiliana tenta di scagliarsi contro un ungherese e stende un poliziotto che tenta di fermarlo, interviene un altro gendarme ma viene abbattuto dal portiere Castilho; Puskas e l’allenatore verdeoro Moreira si insultano a vicenda, il poderoso difensore Pinheira si apposta dietro un angolo per farla pagare alla stella magiara e gli salta addosso a tradimento, ma Puskas gli spacca una bottiglia in testa: è il delirio, una rissa furibonda che vede coinvolti tutti, ma proprio tutti: giocatori, staff tecnico, dirigenti, giornalisti; Sebes viene ferito ad una guancia, e scoppia un vero e proprio incidente diplomatico tra le due nazioni.

Da un punto di vista tattico, i brasiliani hanno pagato la loro indisciplina tattica: i due Santos, sulla carta terzini, sono in realtà raffinati palleggiatori, giocatori esclusivamente offensivi; si lanciano in avanti ad ogni azione e rientrano malvolentieri in copertura, lasciando tutto solo il centrale Brandaozinho.
E’ ormai chiaro che il WM non è adatto allo spirito brasiliano, si rende necessario un cambiamento, e quale può essere il massimo modello cui ispirarsi se non quello ungherese? Dal ’58 in poi, e sino ai giorni nostri, il modulo standard della nazionale Brasiliana sarà un 4-2-4 con difesa a zona, due terzini che spingono a tutta (da Nilton e Djalma Santos a Cafu e Roberto Carlos), un mediano davanti alla difesa che ha il compito di arginare le folate offensive e orchestrare la manovra (pensate a Falcao, o Emerson), un rifinitore libero di svariare per tutto il campo, due ali guizzanti e due punte molto mobili (e su questi ultimi ruoli c’è solo l’imbarazzo della scelta).

La partita con i carioca, seppur dominata, ha messo però in evidenza, per la prima volta, un difetto nell’apparentemente perfetta macchina da calcio magiara: gli ungheresi sono rapidi e scattanti, ma nessuno di loro è particolarmente potente, a parte il macchinoso Lorant; inoltre il loro calcio arrembante e sempre all’attacco è generalmente molto dispendioso, e lo è ancora di più in un contesto in cui le partite si susseguono a ritmo ravvicinato.
Per questo tendono a partire alla grandissima, annichilendo gli avversari nei primi minuti, ma si spengono spesso alla distanza, rischiando la rimonta da parte di squadre con più forza fisica.

Le due semifinali hanno contenuti tecnici opposti.
La sfida tra Austria e Germania Ovest è il trionfo del calcio fisico, di pura potenza: il primo tempo è equilibrato, Max Morlock porta i suoi sull’1-0, e la sfida è ancora in bilico. Come già successo nelle altre gare, però, alla lunga la superiore prestanza fisica dei tedeschi viene a galla, devastando avversari meno preparati fisicamente: Morlock e Fritz Walter ne segnano altri due a testa, il fratello minore di Fritz, Ottmar, ne mette un altro, e la sfida finisce 6-1.
Gli occhi di tutti, però, sono puntati sulla sfida tra Aranycsapat e Celeste, quella che viene considerata, tecnicamente e tatticamente, la finale anticipata del mondiale; una partita che non tradirà le attese, di livello tecnico e tattico assoluto e forse ineguagliato.
I magiari sono ancora privi di Puskas, e sono fisicamente provati dopo il confronto fisicamente durissimo contro la Germania e la battaglia di Berna; anche gli uruguagi, però, sono malconci dopo la sfida con l’Inghilterra, e devono anch’essi rinunciare al proprio capitano, Obdulio Varela (“El Jefe” chiude così la sua carriera ai mondiali senza mai aver conosciuto la sconfitta, in 12 gare complessive).
Come contro il Brasile, l’Ungheria si porta subito sul 2-0 con Czibor e Hidegkuti, ma come contro il Brasile si fa rimontare: anche se il dominio del gioco è in mano agli ungheresi, l’Uruguay si chiude benissimo, lascia pochi spazi, si affida all’efficacia dei suoi terribili difensori e riparte in contropiede con i suoi avanti talentuosissimi; per la prima volta, ci vuole anche un grande Gyula Grosics: il portierone è sempre stato considerato una figura più che altro “di colore” nella squadra ungherese, più celebre per le sue acrobatiche capriole per festeggiare i gol piuttosto che per le sue parate, spesso belle e difficili (a Wembley strappò lunghi minuti di applausi dopo un volo sotto l’incrocio su un colpo di testa di Mortensen dopo geniale invenzione di Matthews) ma inutili, perché arrivate comunque in contesti in cui i suoi dominavano in lungo e in largo; questa volta, invece, il risultato è in bilico, e anche lui ha occasione di dimostrare la sua classe: le sue prodezze salvano la porta in più di una occasione.
Il fantasista Hohberg, però, fa impazzire i difensori magiari per tutta la partita, finchè non riesce a segnare due volte negli ultimi 15’, mandando la partita ai supplementari.

Nel finale di partita gli ungheresi, dopo una partita tutta all’attacco, sembrano non averne più, ma nei supplementari fanno comunque la differenza grazie alla loro classe ed esperienza: approfittando di una situazione di gioco in cui il terribile Rodriguez Andrade è fermo a bordo campo dopo uno scontro di gioco, Kocsis segna con uno dei suoi magistrali stacchi aerei al 111’, e 5 minuti dopo chiude la partita con un’altra marcatura.

--- LA FINALE ---
Finalmente arriva il 4 Luglio 1954, l’attesissima finale allo stadio Wankdorf di Berna, che tutti ritengono solo una passerella per la più forte squadra di sempre, prima del trionfo: l’aranycsapat non ha tradito le attese, ha triturato avversari temibili e squadroni storici, e la finale, contro una squadra già massacrata nel primo turno, sembra una formalità.
Il principale argomento di discussione è rappresentato dalle condizioni fisiche del capitano: Puskas non si è ancora ripreso dall’infortunio, ma la posta in palio è troppo alta: è solo a pochi minuti dall’inizio della gara che viene sciolto il dubbio, e arriva la conferma che il Colonnello sarà della partita: la voglia di alzare la Coppa Rimet da capitano è troppo grande, e Sebes non se la sente di tenerlo in panca.
In casa magiara c’è comunque grande ottimismo: tutti i giornali indicano già l’Ungheria come sicura vincitrice, il Partito ha fatto arrivare a Berna le famiglie dei giocatori in vista dei festeggiamenti, ed ha già organizzato la successiva vacanza-premio.

In casa tedesca, invece, prevale la concentrazione e la scrupolosa attenzione alle indicazioni che Sepp Herberger, l’allenatore, sta dando ai suoi; nella disfatta della prima partita ha studiato attentamente i magiari, e pensa di aver trovato il modo di metterli in difficoltà.
Per evitare di farsi annichilire dal movimento continuo degli ungheresi, Herberger dispone i suoi rigidamente a zona in tutto il campo, puntando non tanto a recuperare palla quanto ad occupare gli spazi e non farsi saltare in dribbling, e non permettere agli avversari di entrare in area con manovre in velocità; l’obiettivo è lasciare il pallino del gioco in mano agli ungheresi, sopportare la loro sfuriata iniziale, concedere solo cross al centro e tiri dalla distanza, e poi, quando il calcio a tutto campo avrà sfiancato i maestri magiari, imporre la propria straripante superiorità fisica ed atletica; l’ordine, per tutti, è di picchiare duro, durissimo, riservando un trattamento particolare a Kocsis: chiunque si trovi nelle sue vicinanze deve disinteressarsi di tutto il resto e preoccuparsi esclusivamente di non farlo saltare, per non essere puniti dai micidiali stacchi aerei del capocannoniere del torneo, che ha già messo in saccoccia 11 reti in 4 partite: due doppiette, una tripletta ed un poker, ottenuto proprio contro i tedeschi.

Ci sono tanti ungheresi a Berna, ma ovviamente i tifosi tedeschi i sono in maggioranza schiacciante; piove a dirotto e il campo è fradicio, un vero pantano.

Inizia la gara, e le previsioni della vigilia sembrano corrette: i magiari, come sempre, partono a tutta birra, e sono subito in vantaggio con Puskas, che corregge in rete un tiro sbilenco di Kocsis da fuori area; due minuti dopo, il diabolico Czibor approfitta di una indecisione del difensore Kohlmeyer e del portiere Turek, si avventa sul pallone e raddoppia.
All’ottavo è già 2-0 per la Squadra d’Oro, e la Finale sembra già decisa.
La Germania, però, non ci sta: un cross tagliato dalla sinistra mette in difficoltà la difesa ungherese che non riesce a respingere, il ciclone Morlock si avventa sulla palla e batte Grosics; la Germania prende fiducia, e al 18esimo raggiunge già il pareggio: su un calcio d’angolo teso dalla sinistra, Grosics esce in presa alta, la sua specialità, ma subisce la carica in volo del gigantesco Eckel e non riesce a trattenere, permettendo a Rahn di segnare in spaccata a porta vuota.
E’ la terza volta consecutiva che gli ungheresi si fanno rimontare dopo essere stati in vantaggio di due gol, ma mancano ancora 60’, quindi apparentemente non c’è nulla di irreparabile… nelle gare precedenti, però, si è già visto che il trend dice che gli ungheresi tendono a spegnersi fisicamente, mentre i tedeschi hanno costruito tutte le loro vittorie nel secondo tempo (nelle quattro partite giocate fino a quel momento, 6 gol nei primi tempi e 15 nelle seconde frazioni); in particolare, nel fango dello stadio Wankdorf i bianchi corrono come degli ossessi, sembrano essere uno o due in più, mentre gli ungheresi sono sostanzialmente in 10, perché il campo pesantissimo e le rudi marcature hanno lasciato il segno sulla caviglia di Puskas, che zoppica vistosamente e riesce a malapena a reggersi in piedi.

Nonostante tutto, però, l’orgoglio della Squadra d’Oro non delude: le azioni offensive si susseguono, e la partita si gioca ad una porta sola; Kohlmeyer salva sulla linea un gol per cui Czibor stava già esultando, Turek neutralizza con due miracoli due conclusioni a botta sicura di Puskas (i due si fanno così perdonare per il clamoroso pasticcio del 2-0 ungherese), Hidegkuti coglie due traverse e Kocsis un palo.
Il tempo scorre e la porta di Turek sembra stregata, ma sembra che i magiari siano in grado di venire a capo anche di questa ostica partita; invece, a 6’ dalla fine, avviene l’inconcepibile: dopo un calcio d’angolo tedesco Bozsik tenta un disimpegno troppo lezioso, e perde il pallone; il poderoso Helmut Rahn lo raccoglie al limite dell’area, finta il tiro col suo temibile destro, dribblando un avversario, si porta il pallone sul sinistro e scaglia una rasoiata nell’angolino basso alla destra di Grosics.

L’orgoglio del grande campione, però, non si arrende mai: all’ultimissimo minuto Ferenc Puskas trova inspiegabilmente le energie per scattare sulla fascia sinistra e battere per la terza volta Turek con una delle sue fucilate; l’arbitro inglese Ling è già a metà campo pronto a riprendere il gioco sul 3-3, quando si accorge che il guardalinee ha la bandierina alzata: è costretto ad annullare, per un fuorigioco quantomai dubbio, e quando fischia la fine Puskas è ancora immobile ed attonito, senza nemmeno la forza per protestare.

Il pubblico tedesco ovviamente impazzisce di gioia; la Germania Ovest, a dispetto di tutti i pronostici e di un avversario nettamente superiore, ha vinto la sua prima Coppa Rimet: è il trionfo della forza fisica e dell’atletismo sulla tecnica e il genio individuale, un dominio fisico rivelatosi in seguito non completamente “naturale”: il giorno dolo la finale, tutti i giocatori tedeschi vengono ricoverati d’urgenza in ospedale, e sottoposti a lavanda gastrica: si parla di infezione alimentare, epatite, attacco di itterizia, ma la verità è che la già devastante potenza fisica tedesca ha potuto tenere testa alla classe magiara solo grazie a qualche aiuto farmacologico.

Nonostante la delusione mostruosa, nonostante l’incombente furia del Partito che stava già preparando le fanfare e deve strozzarsi in gola la propaganda già pronta, nonostante le botte, nonostante il gol annullato all’ultimo minuto, gli ungheresi si dimostrano di una sportività commovente: nessuna protesta, nessuna recriminazione, ma anche nessuna lacrima o gesto di sconforto: un po’ scossi, ma a testa alta, vanno a stringere la mano agli avversari, ed il primo a dare l’esempio è proprio Puskas.
Completamente zuppo, infangato, fisicamente a pezzi, il capitano si passa rapidamente una mano nei capelli solitamente leccatissimi, ma per una volta sconvolti dalla pioggia, e va a congratularsi con il capitano avversario Fritz Walter: un gesto di sportività immortalato da una foto che è diventata un classico nella storia del calcio.

A differenza di quanto successo in casi analoghi in qualche paese di nostra conoscenza, i giocatori magiari si comportano con la massima dignità: nessuno protesta per il gol annullato e per un arbitraggio troppo permissivo con i picchiatori tedeschi, nessuno si lamenta della fin troppo sospetta esuberanza fisica dei bianchi di Germania, nessuno recrimina, nessuno grida allo scandalo.
Al contrario, tutti gli uomini più rappresentativi fanno pubblica ammenda e fanno a gara per accollarsi le colpe della sconfitta: Sebes si incolpa per aver schierato un Puskas non in condizioni di giocare, Puskas stesso si accusa di essere stato troppo egoista ed orgoglioso, Kocsis e Bozsik chiedono scusa rispettivamente per i gol sbagliati e il rinvio troppo lezioso che ha permesso a Rahn la rete decisiva, Grosics si accolla la responsabilità dei primi due gol tedeschi.

Il Partito, invece, non la prende altrettanto bene: le vacanze vengono annullate, i giocatori vengono riportati immediatamente in patria senza nemmeno poter vedere i familiari; mentre a Budapest e in tutta l’Ungheria scoppiano proteste di piazza che presto si trasformano in veri e propri tumulti: la gente manifesta la delusione per la sconfitta, e ne approfitta per sfogare l’insofferenza per il regime; nei tumulti di piazza ci scappano anche svariati morti.
I giocatori vengono trattenuti per giorni e giorni in un edificio governativo, con la scusa di garantirne l’incolumità, e quindi inviati ad un periodo di ferma presso il reparto di loro competenza (l’esercito per quelli della Honved, le fabbriche belliche e ferroviarie per quelli dell’MTK/Voros Lobogo).

Sotto il diluvio dello stadio Wankdorf si è chiuso un ciclo: l’aranycsapat, tra il ’54 ed il ’56, metterà assieme altre 18 gare consecutive senza sconfitte (inanellando quindi una serie positiva che, senza la sconfitta più che sospetta contro la Germania, avrebbe raggiunto l’incredibile numero di 50 partite), ma ormai la nazione ha altri problemi a cui pensare: nel 1956 l’URSS invade il piccolo paese confinante, sprofondando definitivamente nell’incubo rosso.
Il 4 Novembre 1956 Puskas e la Honved partono per una trasferta di coppa a Bilbao: mentre si trovano a Vienna, arriva la notizia che l’Armata Rossa è entrata a Budapest.
I giocatori, anziché rientrare, decidono di andare comunque in Spagna ospiti di alcuni club spagnoli: Puskas fa spargere la voce di un suo presunto decesso, ma da Budapest arrivano l’ordine immediato di rientro e un mandato d’arresto per i giocatori più rappresentativi, Kocsis, Czibor e Puskas, che a questo punto decidono di disertare: rimetteranno piede nella terra natale solo a distanza di decenni.



--- L’EREDITA’ DELLA SQUADRA D’ORO ---
L’epopea di quella squadra formidabile si concluse, immeritatamente, in quel piovoso pomeriggio di Berna, ma quella squadra lasciò un segno profondissimo nell’evoluzione del gioco.
Inghilterra e Brasile, come abbiamo già visto, abbandonarono la propria tradizionale impostazione tattica ispirandosi agli schemi della squadra che aveva loro inflitto pesanti lezioni di calcio, ottenendo in questo modo risultati straordinari (col passaggio al 4-2-4, il Brasile bello ma sprecone della prima metà del secolo divenne una inarrivabile macchina da calcio nella seconda metà, e Ramsey alzò la Coppa del Mondo di fronte alla Regina grazie alle lezioni imparate da Sebes); più in generale, l’avvento della grande Ungheria segnò la fine del Sistema, l’avvio di un proliferare dei moduli più disparati, l’introduzione di soluzioni tecniche, come il fantasista dietro le punte libero di svariare su tutto il fronte d’attacco, che cambiarono per sempre il gioco.
Lo stesso concetto di “calcio totale”, di manovra che coinvolge tutti i giocatori della squadra grazie al loro continuo movimento, fu espresso vent’anni dopo dall’Olanda di Crujiff ma concretamente proposto al mondo per la prima volta da Puskas e i suoi.
In Ungheria, però, quell’eredità non ebbe più seguito, e dopo il ’56 nessuna covata di talenti raggiunse mai la grandezza di quella generazione di fenomeni, e la nazione magiara scomparve sostanzialmente dal grande calcio.

Agli ungheresi rimase il ricordo di due indimenticabili pomeriggi a Londra e Budapest, quando la storia divenne leggenda, rimase il ricordo di una cavalcata trionfale durata quattro anni, rimase l’ammirazione per le meraviglie che i suoi campioni, costretti all’esilio, mostravano in giro per l’Europa.

Al momento della dissoluzione i giocatori più impegnati politicamente, i “vecchi” Hidegkuti e Bozsik (che era addirittura membro del Parlamento), rimangono a svernare in patria; Gyula Grosics si trasferisce in Germania, dove avrà una solida carriera come allenatore; tra i “rifugiati” all’estero, invece, Czibor e Kocsis trovano rifugio al Barcellona, dove incontrano un vecchio compagno di gioventù, “Lazsi” Kubala.

Il fenomeno ungherese, naturalizzato spagnolo, era nel frattempo diventato una vera e propria icona per i blaugrana, anzi l’Idolo per eccellenza: in una squadra che ha visto scendere in campo, tra gli altri, Neeskens, Crujiff, Maradona, Romario e Ronaldo, fino ad arrivare a Ronaldinho e Messi, nessun tifoso mette mai in dubbio che il miglior barcelonista di sempre sia stato, senza indugio, “l’hungaro”, Ladislao Kubala: per motivi calcistici, ma anche perché rappresentava l’orgoglio di tutto un popolo.

All’epoca, molto più che oggi, il Barcellona non era solo una squadra di calcio, era il simbolo stesso della Catalogna, l’unica manifestazione di identità per tutti i catalani: le partite del Barca erano l’unica possibilità di alzare la testa e sbandierare il proprio orgoglio nazionale contro il regime, rappresentato dal potentissimo, ricchissimo, talentuosissimo Real.
L’ungherese biondo e con i capelli scarmigliati era l’anti-Real, l’anti-Franco, l’anti-regime per eccellenza: gli arbitri, sottomessi al franchismo, lasciavano che gli avversari lo pestassero in modo indegno ad ogni partita. Lui, nonostante le mazzate, nonostante i numerosi infortuni, nonostante tutto, continuava a giocare, a segnare, ad insegnare calcio.

Le partite del Barcellona diventarono, grazie a Kubala, un vero e proprio evento: l’affluenza era oceanica, e divenne un fenomeno di costume al punto che si rese necessario costruire uno stadio nuovo e molto più grande, anzi il più grande d’Europa: quello che ufficialmente è conosciuto come Nou Camp, ma che i vecchi Barcelonisti chiamano, affettuosamente, “la casa che Kubala ci ha costruito”.
In 11 stagioni al Barca vinse tutti i trofei che una squadra dell’epoca poteva vincere, in campo interno ed internazionale (compresa la celebre annata ’51 in cui portò a termine uno storico en plein, vincendo 5 trofei), archiviando 272 reti in 329 partite nella Liga ed assicurandosi diversi record storici tuttora imbattuti (tra cui i 7 gol in una partita) e fama degna di un imperatore.
Il prezzo da pagare fu la rinuncia alla maglia della nazionale del suo paese natale: è l’unico al mondo ad aver giocato per tre nazionali diverse (Ungherese, Cecoslovacca e Spagnola) ma non giocò mai nemmeno un minuto al Mondiale… in compenso, in Spagna ritrovò Kocsis e Czibor, nonché Puskas sulla sponda Real: i due formidabili amici-nemici si affrontarono per anni da avversari nelle epiche battaglie tra le due dominatrici del calcio europeo dell’epoca.
Nel giorno dell’addio al calcio di Lazslo, Ferenc fece un gesto clamoroso per sottolineare la sua amicizia col biondo: giocò una partita di esibizione con la maglia blaugrana, per la prima volta assieme a Kubala, per la prima volta indossando una maglia che non fosse quella della Honved, della Nazionale o del Real.

Ma lui come era finito a Madrid? Nell’autunno del ’56, mentre i due compagni si accasano al Barca, Puskas si accorda con Santiago Bernabeu, presidente del Real: arriva però una tegola durissima, la squalifica di due anni imposta dalla Fifa.

L’ormai ex “Colonnello”, ripudiato dal suo paese natale, è alle soglie dei 30 anni, gioca a calcio a livello professionistico da quando ne aveva 15, è stanco e segnato nel fisico dopo una carriera ai massimi livelli, ed abbattuto dal peso della situazione in patria e dalla sua condizione di apolide: quando arriva la squalifica è convinto che segni la fine della sua carriera, e va a svernare in Italia, dove in due anni di inattività ingrassa di 18 chili.

Bernabeu, però, non si è dimenticato del campionissimo ungherese: lui pretende che il miglior giocatore del mondo debba giocare nel Real, ed in effetti è opinione unanime che solo Puskas possa contendersi questo titolo con la “saeta rubia”, la saetta bionda, il grande Alfredo Di Stefano, che veste già da anni la camiseta blanca.
Santiago è ossessionato all’idea di avere in squadra il magiaro, e al termine del bando lo richiama invitandolo a rispettare l’accordo preso due anni prima: Puskas, che si ritiene ormai un ex giocatore, si presenta a Madrid più per riconoscenza che per una seria convinzione di poter tornare quello di un tempo.

Le sue condizioni fisiche sono scandalose, tifosi e commentatori non risparmiano critiche durissime a lui e al focoso presidente per l’ingaggio di quell’ex campione ormai obeso e senza più stimoli; persino l’allenatore stesso si lamenta dicendo che nella sua squadra non c’è posto per un vecchio campione, che ha 31 anni suonati, non gioca da due ed è visibilmente sovrappeso.
Bernabeu, però, non guarda in faccia a nessuno, fa ottenere la cittadinanza spagnola a Puskas, e gli offre l’opportunità di rimettersi in forma in vista della nuova stagione: “Ocsi” ritrova l’entusiasmo perduto e si impegna al massimo per tutta l’estate, perdendo 14 chili.

I compagni, benché campioni affermati ed idolatrati (il Real ha appena vinto due Coppe dei Campioni consecutive), vengono conquistati dal suo carattere gioviale e dalla sua allegria contagiosa, e lo accolgono da subito come uno di loro; i due con cui legherà di più saranno proprio i due giocatori più rappresentativi, Kopa e Di Stefano, forse perché anch’essi, uno slavo naturalizzato francese ed un argentino naturalizzato spagnolo, costretti ad abbandonare controvoglia la propria terra natale.
Tutti sono curiosi di vedere quanto può contribuire alla causa madridista, dopo due anni di assenza, quel piede sinistro che un tempo “carezzava il pallone come Romeo avrebbe fatto con la guancia di Giulietta”, come ebbe a dire un commentatore inglese.

Per l’esordio stagionale del Real, il 21 Settembre ‘58 contro lo Sporting Gijon, c’è il tutto esaurito, Puskas indossa il suo classico numero 10 giocando da mezzala sinistra nella “quinta” (il quintetto di giocatori offensivi) più famosa di tutti i tempi: da destra a sinistra, dal 7 al 10, Kopa, Rial, Di Stefano, Puskas e Gento.
La partita è iniziata da poco, e Puskas riceve il pallone sulla trequarti, leggermente spostato sulla destra: gli avversari gli lasciano qualche metro di spazio, e allora lui si gira e, senza esitare, senza avvicinarsi nemmeno di un metro all’area, lascia partire non una carezza ma una cannonata tremenda, che si insacca esattamente all’incrocio, assolutamente imparabile (in questo video si vede il tiro al momento 3’24’’).
La partita finirà 5-1 e Puskas segnerà il primo, il secondo e il quarto: la folla è in visibilio, i compagni sommergono il titolare di quel magico sinistro che, da quel momento in poi, per i madridisti sarà chiamato semplicemente “el canoncito”, o “pancho”.
Il vecchio leone è tutt’altro che finito, ed è irresistibile come sempre: certo, ha la pancetta e la faccia rubiconda, ma le ha sempre avute; non ha più la resistenza per giocare a tutto campo, ma lo scatto sul breve riesce ancora a fare male, e il suo magico sinistro non invecchia mai.

Nel 1960 gioca la sua prima finale di Coppa dei Campioni (ed è l’unico dei “magici magiari” ad avere questo onore: divisi tra Honved e MTK/Voros Lobogo, i fenomeni della nazionale non riuscirono mai a portare i rispettivi club in vetta all’Europa): si gioca a Glasgow, al glorioso Hampden Park, l’avversario è l’Eintracht Francoforte: finisce 7-3 per il Real, Di Stefano ne segna 3 e Puskas 4, record a tutt’oggi imbattuto (e probabilmente imbattibile) per una finale di Coppa dei Campioni.
Nei 9 anni di permanenza porta il Real a vincere tutto, ma proprio tutto: 5 titoli spagnoli, 3 Coppe dei Campioni, 1 intercontinentale; Puskas, arrivato già 31enne, segnerà la mostruosa cifra di 324 gol in 372 partite in Spagna, vincendo per ben 4 volte la classifica marcatori, mentre in Nazionale il suo bottino complessivo parla di 84 partite e 83 gol: anche questo è un record, e in realtà, come abbiamo visto, le reti sarebbero 84, perché in quel maledetto ultimo minuto allo stadio Wankdorf lui un gol buono lo aveva segnato.

Luisito Suarez, che giocava con Kubala nel Barca ed ebbe a condividere con Puskas la maglia della nazionale spagnola in qualche occasione (4 partite), raccontava con entusiasmo le prodezze cui aveva assistito:
“Alla fine dell’allenamento rimaneva ad allenare i portieri calciando dal limite dell’area : uno spettacolo, trovava sempre la porta; gridava –‘derecha media!’ – e un bolide si insaccava a mezza altezza sulla destra – ‘izquierda baja’– e con un rasoterra impressionante impegnava il portiere sulla sinistra ! Mai visto nulla di simile né prima né dopo! Una volta mi disse –‘Gallego, vieni che ora vamos a picchiare il palo!’– e da venti metri cominciò a tirare verso la porta e su venti tiri colse i pali o la traversa forse diciotto volte !!”

L’aneddoto più bello, però, si trova nella biografia di Stanley Matthews “The way it was”, di cui ho casualmente trovato in rete un estratto:
“Nei primi anni ’80, George Best e Denis Law allenavano le squadre giovanili in Australia. Ogni ragazzo voleva naturalmente essere nel gruppo diretto personalmente da George o Denis e quindi è facile immaginare la delusione di un gruppo di ragazzini che fu posto sotto le cure di un grasso allenatore straniero, così adiposo che la pancia gli fuoriusciva dalla tuta.
Già dal primo giorno lo straniero era stato oggetto della derisione dei giovani Aussies sotto la sua direzione. I ragazzi facevano rudi commenti riguardo alla sua stazza ed il fatto che parlasse un inglese bastardo, e ridevano quando correva dietro alla palla. Verso mezzogiorno, l’anarchia regnava nel gruppo ed i ragazzi non prestavano più alcuna attenzione all’allenatore, limitandosi a passarsi la palla tra di loro, sordi ai suoi tentativi di rimetter ordine nel gioco.
George e Denis, che passavano nei pressi per recarsi a pranzo alla sede del club, notarono la cosa e, intuita l’antifona, si unirono al gruppo. I ragazzi immediatamente si raggrupparono attorno a loro, felici di bersi ogni parola dei due.

George non disse granché. Si limitò ad allineare dieci palloni a circa 20 yards (18 metri, nota mia) dalla porta, chiamò i ragazzi attorno a sé ed invitò lo straniero a colpire il primo pallone.
“OK, ragazzi, qui ci sono dieci palloni. Secondo voi, quante volte riuscirà il vostro allenatore a colpire la traversa?”
Vari numeri furono suggeriti ma un ragazzo, particolarmente vocifero, proclamò: “Zero! Con quella pancia non è capace neanche di vedere il pallone!”
Tendendo un braccio verso i palloni, George invitò lo straniero a tentare la fortuna. I ragazzi osservarono, a bocca aperta, un pallone dopo l’altro fracassarsi contro la traversa 20 yards più in là. Quando giunse all’ultimo pallone, l’allenatore l’alzò in aria, lo ricevette sulla fronte e ve lo lasciò per un attimo, prima di spostare la testa e coglierlo sulla spalla sinistra. Muovendo il corpo da un lato, il pallone cadde ma solo per essere colto dal tacco sinistro del piede dello straniero. Con quello lo rilanciò in aria di nuovo e produsse un tiro al volo di tale potenza che fece tremare a lungo la traversa. Dieci su dieci! I ragazzi esplosero in un applauso spontaneo.
George e Denis si allontanarono, mentre il gruppetto di giovani Aussies circondava l’allenatore chiedendo come potesse mai fare una cosa del genere.
“What’s ya name, mate?”, chiese il ragazzo vocifero, “come ti chiami, compare?”.
George si voltò e, prima di allontanarsi, puntando severamente l’indice verso il ragazzo, disse soltanto:
“Per te, giovanotto, lui è Mister Puskas!”.

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