domenica, novembre 26, 2006

ARANYCSAPAT
La squadra d’oro


La settimana scorsa si è spento Ferenc Puskas, “il Colonnello”, uno dei più grandi interpreti del meravigliuoso giuoco del palluone… ehm, del pallone.

La sua fama, più ancora che ai trionfi del Real Madrid 5 volte vincitore della neonata Coppa dei Campioni, è legata a quella dell’Ungheria del biennio ’52-’54, che secondo molti era e resta la più forte squadra di calcio di tutti i tempi.
Inoltre, proprio ieri, 25 Novembre, cadeva il 53esimo anniversaio della partita che ha reso indimenticabile quella squadra.

Visto che si tratta di uno dei miei argomenti preferiti, ho messo assieme un modesto (ma NON breve) omaggio all’Aranycsapat: la “Squadra d’oro”.



---IL CONTESTO STORICO ---
All’inizio degli anni ’50, l’Europa aveva appena iniziato l’opera di ricostruzione dalle macerie della guerra, ma il calcio viveva un periodo splendido, caratterizzato da grandi squadre e grandissimi giocatori un po’ ovunque.
I maestri inglesi, dall’alto della loro spocchia infinita, continuavano a ritenersi il meglio del meglio; in Europa dominava la Svezia, che grazie ad un paio di generazioni di fenomeni (Gren, Nordahl, Liedholm, ma anche Skoglund, Hamrin, Palmer) aveva strabiliato nel ’48 e nel ’50: le squadre italiane, però, la saccheggiarono dei più grandi campioni, e le regole rigidissime della Federazione (ai professionisti era vietato giocare in nazionale) le impedirono di giocarsela fino in fondo con le altre grandi del continente: quando queste regole assurde vennero cancellate, nel ’58, la generazione di fenomeni era ormai al tramonto, e la Svezia perse una grande occasione.
L’Italia si bullava del doppio trionfo del ’34 e del ’38, nonché del fatto di avere il campionato obiettivamente più ricco di talenti stranieri, e poteva schierare campioni come Boniperti, Parola, Lorenzi, Muccinelli. La Germania iniziava ad uscire dal bando imposto dopo la seconda guerra, e le grandi potenze del calcio centroeuropeo erano le eredi dell’impero austroungarico: l’Austria, in particolare, viveva gli ultimi strascichi del “Wunderteam” di Hugo Meisl, che aveva impressionato l’Europa a cavallo delle due guerre; la Cecoslovacchia sfornava talenti su talenti, mentre l’Ungheria rimaneva la “sorella povera” delle tre, nonostante la capacità di produrre comunque grandi campioni (su tutti il superbomber Imre Schlosser, ma anche Sarosi, Zsellenger, Titkos).
In Sudamerica il Brasile era, oggi come allora, la squadra più ricca di giocolieri al mondo (Ademir, Friaca, Bauer, i due Santos, Didì)… però, oggi come allora, i grandi funamboli spesso subivano cocenti figuracce contro squadre meno talentuose ma più disciplinate, ed i verdeoro erano reduci dalla più grande delusione della loro storia: la sconfitta in casa, di fronte agli spettatori increduli di un Maracanà che sfiorava i 130.000 spettatori, contro l’Uruguay di Schiaffino, Ghiggia e Varela: la Celeste, campione del mondo in carica, univa alla fantasia sudamericana una concretezza europea e soprattutto scuola tattica raffinatissima, che proponeva soluzioni tattiche d’avanguardia, ideate da loro e poi prese in prestito in tutto il mondo.

---IL CONTESTO TATTICO ---
In quel periodo, da ormai quasi 30 anni, tutte le squadre del mondo, dal punto di vista della disposizione in campo, avevano un solo Profeta, Herb Chapman, e un solo Credo: il “sistema” o WM.
Lo schema, che fece per la prima volta grande l’Arsenal, prevedeva una difesa a tre (numeri 2 e 3, rispettivamente terzino destro e sinistro, e 5, lo stopper), protetti da due centromediani (il 4 e il 6): cinque giocatori che sul campo formavano una M, il reparto centro-arretrato.
Gli avanti, invece, erano disposti a W: due mezze-ali (l’8 mezzo a destra e il 10 mezzo a sinistra) alle spalle di un centravanti (il 9) affiancato da due ali (7 a destra e 11 a sinistra).
Era una sistemazione rigida ed apparentemente inviolabile, applicata in modo rigoroso: nessuno si sognava neppure di adottare uno schema differente, e le uniche differenza tra squadra e squadra (oltre, ovviamente, alla qualità dei singoli), derivavano da “variazioni sul tema”.
In particolare, i Mondiali del ’50 avevano visto il trionfo del “centravanti di manovra”: in Europa tutto il gioco era finalizzato per la punta, terminale offensivo principale, e le difese si regolavano di conseguenza… il 5 marcava fisso a uomo il 9, il 2 stava sull’11, 3-7, 4-10, 6-8; il tutto con fanatismo “talebano”.
Le due grandi del sudamerica, Brasile (con la “diagonal” interpretata da Ademir) e Uruguay (l’attacco “ad abanico”, ovvero a cuneo rovesciato), avevano invece adottato uno stile diverso: il 9 non giocava solo per il gol, ma svariava molto, e liberando spazio per gli inserimenti delle mezze ali o delle ali.
Difensivamente, invece, la diatriba principale vedeva contrapposta proprio la scuola brasiliana e quella uruguagia: i carioca, ovviamente, prediligevano una impostazione spregiudicata: i due terzini non erano difensori, ma giocatori offensivi, che fungevano praticamente da ali aggiunte; in caso di contropiede, lo stopper e i mediani si trovavano ovviamente in balia degli avversari. La Celeste aveva invece introdotto uno stile di gioco più equilibrato e moderno, con i terzini inchiodati in difesa, accorgimento che, insieme al centravanti di manovra, le consentiva un equilibrio tattico ineguagliato.
In Italia la polemica divamapava furiosa, e nei bar si rischiava letteralmente di prendere i brutti ceffoni durante le diatribe su quale fosse la variante migliore del sistema da applicare in Nazionale: la “scuola napoletana” prediligeva l’impostazione uruguaiana, ma l’opinione prevalente fu quella dei terzini alla brasiliana e del centravanti di sfondamento, impostazione tattica che il C.T. Czeizler scelse per l’Italia in vista dei Mondiali del ’54 in Svizzera.

--- L’ALLENATORE: GUZSTAV SEBES ---
Fu in questo contesto che Guzstav Sebes, per i suoi giocatori “Guszhi Bacsi” (“Zio Guszhi”), fu nominato allenatore della nazionale magiara nel 1949; prima ancora, però, nella sua qualità di Vice - Ministro dello Sport del regime, aveva orchestrato una importante rivoluzione del calcio locale: dopo le batoste subite dalla nazionale ungherese negli anni ’40 (memorabili un 7-0 dalla Germania ed un 7-2 dalla Svezia del Gre-No-Li), le squadre formate da libere associazioni e “club” sportivi, all’inglese, vennero sostituite da strutture “istituzionali” legate alle forze armate o a gruppi industriali, facendo in modo di riunire tutti i massimi talenti in due “blocchi”: quello della Honved (che riunisce le antiche e gloriose Kispest e Ferencvaros), la squadra dell’esercito, e quello dell’MTK diventato poi Voros Lobogo (che accorpa MTK, Vasas e Ujpest).
Un modello con cui il Partito aveva il controllo diretto del calcio ungherese, permettendo di evitare la “fuga” delle giovani promesse verso l’Italia e la Spagna, che era stata una vera piaga del calcio danubiano nei decenni precedenti, agevolando lo sviluppo di un gruppo di ragazzi talentuosissimi, probabilmente la più massiccia concentrazione di talento mai vista in ambito calcistico; al vertice stavano i due fenomeni Puskas e Kubala, che si sarebbero rivelati, con Di Stefano, i più forti giocatori del decennio a cavallo tra i ’50 e i ’60, e gli indiscussi Dei del calcio mondiale fino all’arrivo di Pelè, Crujiff e Maradona.

Sebes, l’architetto di questa trasformazione, era un personaggio di carattere, che aveva vissuto una vita avventurosa come delegato politico-sindacale all’estero, soprattutto in Francia; era un grande studioso del gioco, che affrontava, da buon marxista duro e puro, con un approccio rigorosamente scientifico: si proclamava grande fan di Pozzo e Hugo Meisl, oltre che ovviamente di Chapman e degli allenatori inglesi che ne avevano diffuso il verbo in Ungheria, applicando in modo rigoroso, almeno sulla carta, il WM.
Il suo massimo vanto, però, era quello di applicare, in anticipo di 20 anni sull’”arancia meccanica” di Michels e Crujiff, il “calcio totale”, o, come lo chiamava lui, il “calcio socialista”: si attaccava e si difendeva tutti assieme, e tutti dovevano essere intercambiabili.
Ma era soprattutto, e tutti i suoi giocatori sono concordi in questo, un grandissimo motivatore: da buon uomo di Partito, i suoi discorsi erano infarciti di retorica politica, ma riuscivano ad accendere il fuoco negli animi di chi doveva scendere in campo.

Un personaggio a tutto tondo, insomma, che diede vita alla squadra che ha giocato il calcio, a tutt’oggi, più bello di tutti i tempi, e per questo gode di universale riconoscimento come uno dei grandi innovatori di questo sport… ironia della sorte, però, le sue grandi intuizioni tattiche ebbero origine quasi per caso, per necessità, allorché si trovò costretto a dover fare a meno di alcuni dei suoi più grandi campioni.

--- I GRANDI ASSENTI ---
Prima di parlare dei grandissimi giocatori che fecero parte della grandissima Ungheria, è necessario parlare di quelli che… non ne fecero parte, e la cui assenza si rivelò, paradossalmente, decisiva.
A cavallo tra gli anni ’40 e ’50, l’Ungheria era stretta nella morsa di un regime marxista di stampo sovietico, ma imposto ad una popolazione che, a differenza di quella russa, non era così entusiasta della soluzione socialista.
I protagonisti del calcio, ovviamente, rispecchiavano queste divisioni politiche e sociali: c’erano i fedelissimi del Partito, come Sebes e il portiere Gyula Grosics, c’erano (ed erano la maggioranza) quelli che, per quieto vivere, si professavano fedeli all’ideologia dominante, non condividendola in pieno ma senza nemmeno sognarsi di fare colpi di testa (come Puskas e Kocsis); e c’erano, in numero consistente, quelli a cui proprio il regime non andava giù.
Se eri un ungherese come tanti e facevi parte di quest’ultima categoria, prima o poi finivi per passartela male: se eri un calciatore di buon livello, invece, avevi pescato il jolly, perché le squadre europee, e soprattutto italiane, facevano carte false per scippare i migliori talenti da sotto al naso del regime, organizzando veri e propri rapimenti, complotti internazionali, truffe, corruzioni ad alto livello, di tutto un po’.

Proprio in Italia nacque l’Hungaria, una squadra creata appositamente per ospitare i transfughi ungheresi e organizzare amichevoli nello stivale e nel resto d’Europa, in attesa del perfezionamento delle procedure burocratiche per poterli schierare nelle grandi squadre della penisola.
Il campionato italiano di quegli anni era pieno di campioni ungheresi nati da questa “diaspora” provocata dal regime: tra tutti, quello con più successo da noi fu Istvàn (italianizzato in Stefano) Nyers, ala dell’Inter capace di 133 reti in 182 gare in Italia, e che giocò la sua partita migliore proprio a Genova contro la Samp (un 3-1 in trasferta con tripletta dell’ungherese nel ‘51: mio nonno c’era, e mi ha raccontato varie volte le devastazioni provocate da questo magiaro inarrestabile, semplicemente di un’altra categoria rispetto a tutti gli altri giocatori in campo).

I due più grandi giocatori persi alla causa ungherese per ragioni politiche furono però Deak e Kubala.
Ferenc “Bamba” Deak era il classico centravanti di sfondamento, una belva di potenza devastante, stella di un Ferencvaros in cui in una stagione il suo più giovane compagno Kocsis fece 33 gol in un campionato, e lui… 57.
Era il bomber e la punta di diamante della nazionale, ma non era allineato politicamente: fu accusato addirittura di spionaggio e affrontò varie vicissitudini, finendo per uscire prematuramente dal giro del calcio che conta: a soli 26 anni, nel 1948, diede l’addio alla nazionale, lasciandola con la straordinaria media gol di 29 reti in 20 partite, dopo essersi affermato come capocannoniere del campionato magiaro per quattro anni consecutivi, dal ’46 al ’49, mettendo a referto la bellezza di 305 gol in 238 gare giocate in carriera.

Ancora più importante e determinante, però, era la figura di Laszlo (all’ungherese), Ladislav o Ladislao (alla ceca e alla spagnola) Kubala: classe 1927, come Puskas, era inizialmente considerato ancora più forte di quest’ultimo, perché un bagaglio tecnico di simile valore era sorretto, a differenza del Colonnello, anche da un fisico poderosissimo, degno di uno stopper (guardatelo in questa foto con Suarez), che lo rendeva praticamente inarrestabile.
Esordì in campionato a 14 anni ed in nazionale a 17, un anno prima di Puskas, ed avrebbe potuto renderla ancora più devastante, ma la sua famiglia era tra quelle pesantemente avverse al regime: già all’inizio degli anni ’40 erano fuggiti in Cecoslovacchia, approfittando del fatto che la madre fosse di quel paese e giocando anche qualche partita in nazionale; era poi rientrato in patria, nel Vasas, ma nel ’49 la situazione si era fatta troppo pesante per lui: chiese un periodo di ferma volontaria nell’esercito ai confini con l’Austria, e appena arrivato al reparto cui era stato assegnato ne approfittò per fuggire in Italia, ancora vestito da soldato.

Le squadre italiane sbavavano al pensiero di poter mettere le mani sull’ennesimo talento ungherese, anzi su quello che sembrava il migliore di tutti, ma questa volta l’Ungheria “si incazzò sul serio”, per dirla alla Fantozzi: la federazione ed il Partito fecero carte false per mettergli i bastoni tra le ruote, e Laszlo, tesserato con la Pro Patria, subì una lunghissima squalifica da parte della Fifa; disputò varie amichevoli con le maggiori squadre della penisola, ma non giocò mai nemmeno un minuto nel campionato italiano, solo qualche amichevole.
Al contrario, dopo un paio d’anni di purgatorio, ci pensò Pepe Samitier, un Moggi spagnolo di quei tempi, a risolvere la situazione: durante una tournèe dell’Hungaria in terra spagnola lo corteggiò a lungo, e riuscì a portarselo a casa approfittando dell’altra grande passione di Kubala oltre al calcio: l’alcool.
Si narra che i dirigenti del Real, che avevano contattato il giocatore, avessero già raggiunto un accordo di massima per portarlo alle merengues con Di Stefano, e aspettassero soltanto una spintarella politica da parte di Francisco Franco per fare annullare la squalifica; il mefistofelico Samitier, invece, invitò “Lazsi” ad una festa dove lo fece ubriacare come una zampogna, gli fece firmare il contratto approfittando della sua condizioni etilica, se lo portò al Barcellona e in quattro e quattr’otto gli fece ottenere il passaporto spagnolo e la revoca della squalifica, che gli permisero di deliziare le folle catalane negli 11 anni successivi.
Parleremo di Kubala più avanti... ora è il momento di parlare finalmente della Squadra d’Oro.

--- LA SQUADRA ---
Inizialmente, Sebes metteva in campo i propri campioni adottando il WM più classico ed ortodosso.
Gyula Grosics, funambolico portiere, era l’unica stella di livello internazionale in una difesa che non era qualitativamente all’altezza degli altri due reparti, zeppi di supercampioni.
I terzini Jeno Buzanski e Mihaly Lantos erano brevilinei e velocissimi, molto più bravi – e portati - ad attaccare che a difendere, e al centro della difesa troneggiava il massiccio Gyula Lorant, un orso danubiano dominante dal punto di vista fisico e in grado di martoriare i centravanti che indugiavano nella sua area, ma lento e macchinoso, che andava spesso in crisi se preso in velocità.
La prima stella di valore assoluto si incontrava di fronte alla difesa: Joszef Bozsik, il giocatore più rappresentativo della Honved assieme a Puskas, era il cervello della squadra, un metronomo in grado di rompere le manovre avversarie e dettare i tempi ai compagni: tutte le trame della squadra passavano da lui; il suo ruolo era definito, un tempo, “centromediano metodista”, e lui ne rimane l’interprete migliore di ogni epoca.
Al suo fianco, ma nemmeno lontanamente paragonabile a lui, Joszef Zakarias, che si occupava solamente della fase difensiva del gioco.
L’ala destra era un ruolo per cui Sebes sceglieva di volta in volta tra l’atletico ed arrembante Mihaly Toth o il più ragionatore Budai II, mentre sulla sinistra imperversava l’estroverso Zoltan Czibor, ala dal dribbling funambolico e specialista dei calci piazzati, imprevedibile in campo e fuori.
Mezzala sinistra, numero 10, era Ferenc Puskas; soprannominato “Ocsi” (il ragazzino) per la sua faccia paffuta e il ciuffo biondo, “il Colonnello” per il ruolo ricoperto nell’esercito (la Honved era appunto la squadra dell’esercito) e, una volta approdato in Spagna, “Canoncito”, per la devastante potenza e precisione del suo magico sinistro, eguagliato soltanto da quello di Maradona: un giocatore per cui si sprecano gli aneddoti (Suarez disse di avergli visto mirare i pali di una porta da fuori area e di averli colpiti 18 volte su 20), riconosciuto da tutti come il miglior giocatore al mondo, assieme alla “saeta rubia”, Alfredo Di Stefano, assieme al quale avrebbe scritto pagine storiche al Real Madrid, mettendo assieme cifre incredibili: 1156 gol in carriera (secondo solo a Pelè), 84 in 85 gare con la Nazionale (record imbattuto sino al 2003, quando gli fu scippato da Daei dell’Iran, che però affrontava ben altri avversari), 4 gol in una finale di Coppa dei Campioni.
Scegliere una mezzala destra era difficile, anzi impossibile, perché tenere fuori uno tra Nandor Hidegkuti e Sandor Kocsis sembrava un delitto: il primo era un genio del pallone dotato di tecnica ed inventiva seconda solo a quella di Puskas, un giocatore di classe sopraffina; il secondo resterà nella storia come uno dei più inarrestabili bomber del gioco: 75 reti in 68 partite con la Nazionale, la miglior media gol di sempre (più di Gerd Muller, più di Just Fontane, più di tutti i grandi cannonieri), celebre per essere il miglior colpitore di testa della storia del gioco; soprannominato “golden head” (“testina d’oro” in Italia), più della metà dei suoi innumerevoli gol arrivavano dal gioco aereo: non era un marcantonio (in questa foto con il massiccio Kubala si vede come fosse longilineo e non particolarmente alto), ma dotato di uno stacco da terra e di un senso del tempo ineguagliato.
In posizione di centravanti, di fronte a tutti questi fenomeni, stava Peter Palotas, stella dell’MTK e lui stesso campione di gran classe (il primo a segnare una tripletta nella storia della Coppa dei Campioni, autore di 20 gol in 29 partite con la nazionale, di cui 2 in 2 gare ai Mondiali del ‘54), ma comunque distante dall’inarrestabile “bamba” Deak che aveva il compito di sostituire.

La squadra era buona, anzi ottima, ma ben lungi dal soddisfare Sebes: i due terzini erano troppo spregiudicati, e con le loro scorribande lasciavano il massiccio Lorant troppo solo ed in balia del contropiede avversario; Boszik non aveva un partner di centrocampo che parlasse il suo linguaggio tecnico, Palotas non era al livello dei suoi compagni e tenere in panca uno tra Kocsis e Hidegkuti sembrava un delitto.
Sebes, allora, decise di fare di necessità virtù e di adattare il modulo ai giocatori a sua disposizione: Zakarias, che a difendere è bravo ma a costruire inutile, viene lasciato fisso in difesa, a dare manforte a Lorant: nasce una difesa a quattro rigorosamente a zona, in cui lo stopper ha finalmente qualcuno che lo aiuti, e i due terzini possono spingersi in avanti senza troppi rimorsi.
Il vero colpo di genio, però, è in avanti: se manca una vera punta e abbondano le mezzali, mettiamo una mezzala a fare la “finta punta”, come gli uruguaiani e i brasiliani, anzi in modo ancora più estremo: Hidegkuti diventa il numero 9, e cambia per sempre il gioco del calcio.
“Nandi”, infatti, non è un centravanti di sfondamento, ma nemmeno un centravanti di manovra: è un giocatore di estro e fantasia, che pensa prima a servire i compagni che a segnare; non si limita ad aprire spazi per i compagni, come gli attaccanti uruguagi e brasiliani, ma arretra drasticamente a centrocampo, andando spesso a prendersi la palla direttamente dai difensori, lasciando che Puskas e Kocsis facciano le punte.
Nasce così, grazie all’interpretazione di “Nandi”, il ruolo più affascinante di tutti: la mezza-punta, il rifinitore, l’uomo che gioca dietro le due punte; è la prima volta che si vedono “due centravanti” assistiti da un fantasista alle loro spalle, libero di svariare su tutto il fronte dell’attacco, che va a prendersi i palloni dal regista e inventa assist geniali per gli avanti o improvvisazioni personali.
E’ un ruolo affascinante ma totalmente nuovo ed estraneo alle rigide definizioni del WM, per il quale non esiste neppure un nome. La soluzione più semplice è dargli il nome di colui che lo ha inventato, e da allora, per molti decenni, quello che oggi chiamiamo “fantasista”, “rifinitore”, “mezza punta”, sarà chiamato, semplicemente, “centravanti alla Hidegkuti”.
E’ la quadratura del cerchio, è la soluzione definitiva, è la più grande rivoluzione tattica della storia del calcio: il WM, che rimane solo sulla carta, è diventato un 4-2-4: difesa a zona, con due centrali potenti che si occupano solo di difendere e due esterni veloci che spingono tantissimo e si sovrappongono spesso e volentieri con le ali, che a loro volta giocano più arretrati rispetto alle punte, coprono lo spazio quando c’è da difendere, e hanno un compito più di sostegno che di finalizzazione; un regista davanti alla difesa, perno di tutto il gioco, e il “centravanti alla Hidegkuti”, libero di concludere personalmente o di inventare calcio per le due punte, una forte di testa e l’altra micidiale nel gioco a terra.

E’ nato, 20 anni prima dell’Olanda di Crujff, il “calcio totale” (o “calcio socialista”, come amava chiamarlo Sebes): individualità clamorose al servizio di uno schema in cui tutti partecipano al gioco, e in cui si arriva in porta non con iniziative individuali, ma attraverso scambi in velocità, movimento, sovrapposizioni, giocate fulminee e spettacolari: tutti i giocatori fanno movimento, tutti sono intercambiabili: ora Puskas e Kocsis fanno le punte stazionando in area, imbeccati da Hidegkuti, ma nell’azione dopo è Puskas ad andare a prendersi il pallone a centrocampo e a lanciare per l’inserimento di Hide o Czibor.

--- LA PARTITA ---
L’Ungheria è pronta per stupire il mondo, ed inizia a macinare avversari: il 14 Maggio 1950 affronta l’Austria di Ocwirk e Happel in una partita equilibratissima, che alla fine la vede sconfitta per 3-5; rimarrà, fino alla finale di Berna del ‘54, l’ultima sconfitta dell’”Aranycsapat”, che resterà imbattuta per quattro anni e 31 partite (di cui 28 vittorie), una striscia di risultati leggendaria ed ineguagliata.
L’occasione che permette ai magiari di affermarsi agli occhi del mondo sono le Olimpiadi del ’52, che l’Ungheria vince, anzi domina: Czibor e Kocsis abbattono la Romania, poi arriva un secco 3-0 all’Italia con doppietta di Palotas e ancora Kocsis, quindi 7-1 alla Turchia (doppiette di Puskas e Kocsis, reti di Palotas, Boszik e Lantos), 6-0 ai campioni in carica svedesi (Puskas segna al primo minuto, poi Palotas, 2 Kocsis, Hidegkuti e un autogol), ed infine arriva la finale con la Yugoslavia.
Dal Partito chiamano Sebes, comunicandogli che una sconfitta “non sarà tollerata”… non ce n’è bisogno, perché gli slavi sono forti ma la partita non ha storia: 2-0, reti di Puskas che scarta mezza difesa, portiere compreso, e di Czibor su punizione.
Puskas riceve la medaglia olimpica da capitano, l’Ungheria si fa conoscere agli occhi del mondo: 5 partite, 20 gol fatti, 2 subiti, una superiorità imbarazzante.

Nel Maggio ’53 l’Italia (che, prima della partita nel torneo olimpico, vantava una lunga tradizione favorevole contro i magiari), inaugura lo Stadio Olimpico di Roma, e per l’occasione chiede la rivincita ai campioni a cinque cerchi: niente da fare, si busca altre tre pere e un’altra lezione di calcio: gol di Hidegkuti e doppietta di Puskas, in una partita che avrebbe potuto comodamente finire 5 o 6 a zero.

E’ a questo punto che entrano in scena gli inventori del calcio.
Gli inglesi, dall’alto della loro spocchia, di tanto in tanto si tolgono lo sfizio di sfidare le formazioni continentali che reputano degne di questo onore, e questa volta tocca all’Ungheria.
Sebes, che vede avverarsi un sogno non solo calcistico ma anche politico (la sfida tra il socialismo e il capitalismo) risponde all’arroganza con arroganza, invitando gli inglesi a scegliere il giorno e il luogo della disfida, e gli albionici non se lo fanno ripetere due volte: si giocherà a Wembley, il tempio del calcio, il 25 Novembre 1953.

Viene tutto programmato per infliggere alla più forte squadra che l’Europa continentale abbia mai prodotto la più cocente sconfitta, la più dura lezione da parte dei maestri: lo stadio è stracolmo, più di 100.000 spettatori, tutti inglesi; è il classico pomeriggio inglese di Novembre, freddo e piovoso; il campo è pesantissimo, e la Football Association non ha dato ai magiari il permesso di allenarsi sul prato di Wembley; in più il campionato ungherese è agli sgoccioli (d’inverno non si gioca per la neve) mentre quello inglese è nel pieno del suo svolgimento.
Insomma, le peggiori condizioni ambientali possibili per gli agili e tecnici ungheresi, mentre gli inglesi ci vanno a nozze.

Dulcis in fundo, i maestri del calcio vantano una discreta tradizione: non hanno mai perso in casa contro squadre europee o sudamericane (soltanto un paio di sconfitte in quelli che erano ritenuti “questioni interne” alla Corona britannica con Scozia e Irlanda), con un’imbattibilità casalinga, l’home record, di ben 90 anni!

La formazione che mettono in campo in quella partita è tutt’altro che scarsa, ed anzi annovera alcuni dei più grandi campioni della storia del calcio britannico: in porta il monumentale Merrick, niente di che da un punto di vista tecnico, ma con la sua gigantesca presenza intimidisce fisicamente gli avversari, soprattutto nelle uscite.
Il centrale difensivo era il poderoso Johnston, affiancato da Eckersley a sinistra e dal veteranissimo Alf Ramsey, 33 anni, sulla destra: giocatore di innato senso tattico, supremo specialista nei calci piazzati e specialmente nei calci di rigore, nel ‘66 avrebbe guidato da allenatore i suoi alla vittoria nel mondiale.

Davanti alla difesa c’erano Dickinson ma soprattutto il leggendario Billy Wright, "The Ironbridge Rocket", uno dei più grandi campioni della storia del calcio britannico: una vera e propria diga, praticamente insuperabile, una presenza fisica dominante: l’allenatore in campo, un leader nato (indossò la fascia da capitano dei leoni per ben 90 volte -un record assoluto, alla pari con Bobby Moore – guidandoli ai mondiali del ’54, ’58 e ’62); i suoi tackle durissimi erano proverbiali, ma allo stesso tempo era anche l’epitome della correttezza e del fair play britannico: 105 partite in nazionale (di cui 70 consecutive, altro record), 451 gare nel massimo campionato inglese (tutte con i Wolverhampton Wanderers), e mai una ammonizione né una espulsione.
A centrocampo i due interni Sewell e Taylor avevano l’unica funzione di supportare il classico centravanti di sfondamento, Stan Mortensen: autore di caterve di gol in Nazionale e nei club, è diventato celeberrimo in Italia per un gol che da allora è rimasto nella storia come gol, appunto “alla Mortensen”, messo a segno durante una clamorosa lezione di calcio ai danni degli azzurri nel 1949 a Torino: un potentissimo esterno destro che si insacca sotto la traversa, calciato dalla linea di fondo dopo una percussione solitaria.
L’ala sinistra era il velocissimo Robb, altro giocatore di classe assoluta, ma il più forte di tutti si trovava all’ala destra, padrone indiscusso della maglia numero 7: Sir Stanley Matthews, probabilmente la più forte ala destra di tutti i tempi, leggendario per abilità in dribbling e precisione nei cross; colui che Pelè ebbe a definire “l’uomo che ha insegnato a tutti i noi come si gioca a calcio”, il calciatore più longevo di tutti i tempi; esordisce nel campionato inglese nel ’32, appena diciassettenne, con lo Stoke City; gioca 698 partite con lo Stoke ed il Blackpool, e si ritira dopo aver giocato l’ultima partita da professionista a 50 anni, nel 1965 (ennesimo record); nel 1956, a 41 anni, era stato il primo vincitore del Pallone d’Oro.
In quel fatidico 25 Novembre ’53 ha 38 anni, ma è al massimo della sua fama: pochi mesi prima, a Maggio, ha giocato quella che viene ancora oggi ricordata dagli inglesi come “the final”, la più bella partita mai giocata tra due squadre inglesi: Bolton e Blackpool si affrontano nella finale della FA Cup, il Bolton è in vantaggio per 3-1 a 20’ dalla fine, ma una clamorosa rimonta orchestrata da Matthews (con due gol del Blackpool negli ultimi due minuti) ribalta il risultato: finisce 4-3, con 3 gol di Mortensen, ma è Matthews il protagonista assoluto.

Affrontando avversari del genere, in uno stadio del genere, con un’atmosfera del genere, Sebes non ha nemmeno bisogno delle sue arringhe che sembrano comizi politici: si limita ad un efficace “se vinciamo oggi, entriamo nella leggenda”; non serve altro, perché i suoi sono carichissimi; Hidegkuti si lascia scappare un profetico “per ogni gol che ci segnano, gliene facciamo due”; Puskas, che nel corridoio ha appena incrociato l’inglese Taylor, annuncia “state tranquilli, uno di loro è persino più basso di me!”.
All’ingresso in campo delle squadre, il cielo sorprendentemente si apre e lascia filtrare un pallido sole: gli inglesi hanno per la prima volta l’occasione di vedere dal vivo questi insolenti magiari, che vengono a sfidarli a casa loro da un paese piccolo, provincia di nessun interesse dell’odiato Impero Comunista, di tradizione calcistica (per loro) irrilevante.
Restano sorpresi dall’abbigliamento degli avversari, con scarpe basse e leggere che sembrano le meno adatte al pesantissimo terreno di Wembley, e soprattutto dal giocatore che guida i suoi in campo: il tanto pubblicizzato Puskas è piccoletto, grassottello, col ciuffo impomatato e la faccia da contadinotto… più che un campione sportivo sembra un graduato dell’esercito, ruolo che d’altronde ricopre a tutti gli effetti (e gli inglesi ne sono ulteriormente costernati: i calciatori di Sua Maestà sono professionisti già da decenni, come si può pensare di sfidarli con una squadra di dilettanti?).

I due capitani si stringono la mano, e come in un film, o una puntata di Holly e Benji, hanno rispettivamente il 10 ed il 4: questo significa che, stando alla rigida applicazione inglese del WM, si fronteggeranno per tutta la partita.
I padroni di casa, infatti, seguono alla lettera le antiche regole tattiche del “sistema”, con marcature a uomo rigide ed inviolabili: 2-7, 3-11, 5-9, 6-8 e, appunto, 4-10: Wright contro Puskas, a tutto campo.

Il calcio d’inizio è per i magiari, va Puskas a battere, ma prima di posizionare il pallone sul dischetto lo tiene in equilibrio sul collo del piede per un tempo che sembra infinito: gli inglesi iniziano a guardarlo con ammirazione, sarà pure cicciotello ma evidentemente ha una tecnica sopraffina.
Finalmente si inizia, ed è subito leggenda: la palla gira in difesa, poi si cerca il regista per iniziare la fulminea azione offensiva, tutta di prima: da Lorant a Boszik, da Boszik a Kocsis, da Kocsis a Hidegkuti, che riceve palla spalle alla porta qualche metro fuori dall’area di rigore, si gira, salta secco Johnston e insacca dal limite dell’area con una fucilata dal all’incrocio dei pali.
Sono passati 40 secondi, l’Ungheria è in vantaggio a Wembley, e i maestri del calcio non hanno toccato il pallone nemmeno una volta.

Si riparte, ma bastano pochi minuti per far capire agli spettatori che sotto i loro occhi il football sta cambiando, per sempre: Hidegkuti si porta a spasso Johnston per tutto il campo, irridendolo ogni volta che tocca palla e giocando da rifinitore per le punte; il pirotecnico Czibor è imprendibile per Ramsey (che alla fine di questa partita si ritirerà), Boszik orchestra il gioco a centrocampo ed entra in tutte le azioni, Kocsis è immarcabile e Puskas… beh, Puskas semplicemente predica calcio: a volte è il giocatore più avanzato, altre volte va a prendersi il pallone a metà campo; Wright non ha mai affrontato un avversario del genere, e tutta l’Inghilterra è attonita.
In dieci minuti Merrick deve salvare la porta tre volte su Puskas, Kocsis e Budai, poi una splendida sovrapposizione di Hidegkuti gli permette di segnare ancora, ma il gol viene annullato per fuorigioco.
Al 13’ l’Inghilterra imbrocca un contropiede e Sewell segna… Wembley si infiamma, ma è un fuoco di paglia: al 22’ Czibor va sul fondo a sinistra, gli inglesi si aspettano un cross al centro per Kocsis ma l’ala tocca corto per Puskas che arriva come una furia e salta secco Johnston: lo stopper affonda il tackle e lo abbatte, ma da terra il capitano riesce a toccare il pallone al centro con il sinistro: Hidegkuti lascia scorrere il pallone evitando Dickinson, e batte di nuovo Merrick con un rasoterra nell’angolo basso: i magiari sono di nuovo in vantaggio, e non si guarderanno più indietro.

Al 25’ Puskas conquista la scena, scrivendo una pagina di storia del calcio: va a prendersi un pallone da Buzansky ben all’interno della propria metà campo, lo porta avanti e lo serve a Kocsis, lanciandosi nello spazio lasciato libero dal compagno; Kocsis fa da sponda di prima per Boszik, che prende palla all’interno del cerchio di centrocampo; un tocco e servizio in verticale per Hidegkuti, che gli è venuto incontro trascinandosi dietro Johnston, e smista sulla destra per Budai, che a sua volta è rientrato fino a centrocampo portandosi via il difensore; Budai controlla e lancia sulla stessa fascia Czibor, che ha tagliato tutto il campo da sinistra a destra approfittando dello spazio lasciato libero da Budai, ed ha campo aperto di fronte a sè: si lancia sulla fascia, arriva sul fondo, alza la testa e vede Puskas che, nel frattempo, si è fatto tutto il campo ed è pronto a ricevere sul vertice dell’area piccola; lo serve immediatamente con un passaggio rasoterra, e qui inizia la magia.

Billy Wright, stufo di subire il torello, ha capito tutto, rinunciando al rigido posizionamento del WM e seguendo Puskas a tutto campo nella sua scorribanda: mentre Puskas sta per ricevere il pallone, il biondo capitano inglese arriva come una furia alle sue spalle, pronto, come raccontato dallo stesso Puskas, a spedire in curva il pallone insieme al numero 10 ungherese con uno dei suoi proverbiali tackles.
Ocsi, però, controlla il pallone con la suola del suo magico sinistro, mostra il pallone a Wright e, sempre usando soltanto la suola, con un solo fluido movimento fa sparire il pallone spostandosi all’indietro… Wright vola in scivolata ma prende solo aria, e Puskas, ormai solissimo, scaglia una rasoiata che Merrick non vede nemmeno.
La folla è esterrefatta: è nato un “trick play”, come dicono gli inglesi, che nessuno ha mai visto fare su un campo di calcio, inventato sul momento da questo tracagnotto ungherese con un lampo di genio inarrivabile: da ora in poi sarà chiamata “Puskas drag-back”, e la rete resterà nella memoria come “the perfect goal”, un appuntamento fisso in tutte le classifiche del tipo “i più bei gol di tutti i tempi”.

Gli inglesi continuano a lottare, ma ormai è chiaro che non c’è più partita: 4 minuti dopo Puskas corregge un tiro da fuori di Bozsik spiazzando Merrick: è il 29’ e il risultato è 4-1 per gli ospiti.
Sul finale del primo tempo il coriaceo Mortensen segna un bel gol con una poderosa azione personale, e gli spettatori sperano in una miracolosa rimonta, o quantomeno in una sconfitta più onorevole.

Niente di tutto questo, perché quando le squadre rientrano in campo la musica è sempre la stessa: al 50’ Puskas irride il suo avversario con un gioco di gambe sulla destra, mette al centro un pallone perfetto che Kocsis piazza di testa: sembra gol, ma il palo salva gli inglesi… per qualche secondo, perché sulla respinta della difesa la palla torna a Bozsik, che segna da fuori area con un’altra cannonata sotto l’incrocio.
Il sesto gol, e terzo personale per Hidegkuti, arriva al 53’, ed è un’altra combinazione di spettacolare gioco di squadra e deliziose giocate individuali: tutto parte, come sempre, dalla solita giocata in verticale di Bozsik dal cerchio di centrocampo, per Kocsis; il numero 8 verticalizza per Hidegkuti che, spalle alla porta, chiude il triangolo di prima e si gira fulmineo verso la porta, lasciando Johnston sul posto; Kocsis lascia a Bozsik che è salito alla sua sinistra, il centrocampista salta secco un inglese e allarga a sinistra per Puskas; Puskas di prima disegna un perfetto lancio di esterno sinistro per Hidegkuti, che si è lanciato in area dopo aver seminato Johnston col movimento precedente, e tutto solo insacca al volo di esterno destro alla sinistra di Merrick.

Ramsey segnerà il 3-6 su calcio di rigore, ma è più una partita, c’è solo la storia che diventa leggenda: al fischio finale le conclusioni a rete sono 35 a 5, il pubblico inglese si lascia andare ad un lungo, sportivissimo applauso, e capitan Wright non esce dal campo prima di aver salutato e complimentato tutti gli avversari.

I magiari sono ormai degli idoli non solo per il loro paese, ma per tutti gli appassionati di calcio del continente; al rientro in Europa, a Parigi, vengono accolti da una folla in delirio (Puskas racconta che i francesi, nonostante il loro classico sciovinismo, festeggiavano gli ungheresi come se fossero stati 11 francesi a compiere l’impresa).
I giornali inglesi non parlano d'altro, e la definiscono "la partita del secolo": il calcio è cambiato, il WM classico è superato, nasce l'era del "calcio totale".

Gli inglesi chiedono la rivincita, che si disputa l’anno dopo a Budapest, in occasione dell’inaugurazione di quello che oggi si chiama “Ferenc Puskas Stadion”, ma che allora era il Nepstadion, lo “Stadio del Popolo”: gli inglesi schierano una squadra più giovane, senza Matthews, Mortensen e Ramsey ma con il nuovo idolo locale Tom Finney, mentre gli ungheresi ripropongono lo stesso undici di Wembley, con Toth al posto di Budai.
I capitani sono di nuovo Puskas e Wright, ed è un massacro ancora più netto di quello di Wembley: davanti a 90.000 ungheresi in visibilio finisce 7-1 per i padroni di casa; segnano Bozsik con una cannonata su punizione all’ottavo, poi due volte a testa Puskas e Kocsis, Toth e Hidegkuti.

L’imbattibilità della Squadra d’Oro è ormai arrivata a 28 partite in 4 anni: i Mondiali in Svizzera sono ormai alle porte, e tutto il mondo si aspetta un altro show dei “magici magiari”.


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domenica, novembre 19, 2006

LA PRIMA VOLTA


Ho provato l'ebrezza del volante per la prima volta a tredici anni.Non dimenticerò mai quei pochi interminabili secondi sulla FIAT 500 di mia madre.Pochi secondi e poi un cancello.Povera 500.
E voi?Quali sono le prime ciccatrici che avete lasciato sulle infrastrutture del nostro bel quartiere?Dove è finita la scritta "CALIFFO IN SVEZIA FUGGI IN VIA LA SPEZIA"?
Misteri di Sampi.

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giovedì, novembre 16, 2006

Buon compleanno, Internet!

Come sottolineato dallo splendido Paolo Attivissimo, sedici anni e tre giorni fa (13 novembre 1990, ore 15:17:00 GMT) veniva modificata la più vecchia pagina internet ancora esistente.

Se avete 5 minuti liberi leggetevi l'articolo, in cui si trovano anche interessantissime osservazioni sulla nascita del web e i pregi dell'open source.

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venerdì, novembre 10, 2006

Chiedo venia al caro Diso se sfrutto ancora una volta il suo

FATTO DEL GIORNO (parla pure col mio avvocato):

RUSSIA: FRITTELLE IN OLIO DI HASHISH, NONNINA ALL'OSPEDALE


MOSCA - Una anziana signora di Krasnodar, nel sud della Russia, è finita in ospedale per aver cucinato in purissimo olio di hashish le sue frittelle. A mal partito è finito anche il cane di casa, che ne aveva assaggiata una: per l'animale, l'incoscienza è durata 24 ore e non sembra aver lasciato strascichi. Ma la vecchina ha passato tre giorni in un reparto di rianimazione di un ospedale cittadino, in preda a forti allucinazioni. Responsabile della vicenda è uno spacciatore locale che voleva inviare hashish nel nord senza destare i sospetti della polizia e servendosi di un corriere involontario, il nipote dell'anziana intossicata. Il pusher, racconta l'agenzia Interfax, aveva ricavato da quaranta panetti una bottiglia di olio ad altissima concentrazione di Thc, il principio attivo dell'hashish, per un valore di circa 3.500 euro sul mercato locale. La sua intenzione era di inviarlo a San Pietroburgo, tramite un amico ignaro della esatta natura del carico. Ma l'inconsapevole corriere non ha trovato biglietti disponibili per l'ex capitale degli zar, ed è tornato a casa. Dimostra la sua buona fede il fatto che abbia lasciato la bottiglia in cucina, a portata della nonna, che ne ha subito approfittato. Ai medici è occorso qualche tempo per capire l'esatta natura dell'intossicazione: per quanto i sintomi fossero comprensibili, nessuno poteva credere di trovarsi di fronte a una tossicodipendente ultrasessantenne e a un cane domestico in acuta overdose.

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giovedì, novembre 09, 2006

Non sapendo cosa dire sul psot di fdm...riparto temporaneamente con

IL FATTO DEL GIORNO


Ogni quattro minuti si sfascia una coppia, in dieci anni incremento del 59%
In netto calo le unioni con rito religioso, resiste solo il Meridione
Matrimoni in crisi profonda
ci si sposa meno e si divorzia di più
La nuova fotografia delle famiglie italiane nel rapporto dell'Eures

Matrimoni in crisi profonda
ci si sposa meno e si divorzia di più


Un matrimonio tra immigrati
ROMA - Sempre meno matrimoni e un divorzio ogni quattro minuti. E' quanto risulta dal rapporto Eures "Finché vita non ci separi...Caratteristiche ed evoluzione dei matrimoni in Italia". In Italia, stabilisce la ricerca, negli ultimi trent'anni i matrimoni sono diminuiti del 32,4 per cento, passando dai 373.784 del 1975 (con un indice pari al 6,7 per mille abitanti) ai 250.974 del 2005 (con un indice del 4,3).

Più matrimoni al Sud. La Campania presenta l'indice di nuzialità più alto (5,3 ogni mille abitanti); ma è il Lazio l'unica regione d'Italia in cui il numero dei matrimoni abbia fatto segnare un incremento rispetto al 1995 (da 4,7 a 5,1), anche per effetto del "turismo matrimoniale": le coppie arrivano da mezzo mondo nella città eterna per convolare a nozze. Al Nord ci si sposa meno della media nazionale, con un picco negativo in Emilia-Romagna (3,5 matrimoni ogni mille abitanti). Napoli è la città in cui ci si sposa di più (17.881 matrimoni nel 2005, pari a 5,8 ogni mille abitanti). L'età media del matrimonio, negli ultimi tre decenni, è salita di 7 anni tra gli uomini e di oltre 5 per le donne. Nel 2006 lo sposo aveva in media 33,7 anni, la sposa 30,6.

Rito religioso in declino. In calo il matrimonio in chiesa, che nel 1975 veniva scelto dal 91,6 delle coppie, contro il 67,6 del 2005. Fa eccezione il Sud, dove otto coppie su dieci ancora vogliono andare all'altare. L'incidenza più bassa delle nozze religiose si registra in Friuli (48,5 per cento). Prudentemente, si preferisce in ogni caso optare per la separazione dei beni, scelta dal 54,3 per cento delle coppie italiane; e la percentuale sale ancora al nord (61,7%). C'è poi anche chi ci riprova: il 7,7 degli sposi e il 6,6 delle spose sono alla seconda esperienza matrimoniale, con un'età media di 45 anni. Ed è pari al 10,5 per cento l'incidenza dei matrimoni con almeno un coniuge non italiano: nella maggior parte dei casi (58,1%) l'italiano è lo sposo, mentre lei è straniera.

Divorzi a ritmo frenetico. Ma quello che salta agli occhi è il dato delle separazioni e dei divorzi, saliti rispettivamente a +59% e +66% per cento negli ultimi dieci anni. E' il Sud a registrare l'incremento più consistente, sia delle separazioni (+84,7 per cento, contro il 46,3 del Nord) sia dei divorzi (+74,7 per cento, contro il +61,3 del Nord). Complessivamente, nel 2004 si contano oltre 128 mila separazioni e divorzi (rispettivamente 83.179 e 45.097), pari a 352 sentenze al giorno: come dire che ogni quattro minuti, in Italia, si spegne un sogno d'amore sancito con le nozze.

Il record in Liguria. A livello regionale, i valori più elevati si registrano in Liguria, con 91,2 separazioni e divorzi ogni cento matrimoni); i legami più solidi sono in Calabria, dove per cento matrimoni si registrano "solo" 24 tra divorzi e separazioni. Più "resistenti" si rivelano i matrimoni religiosi (5,6 divorzi ogni cento matrimoni in chiesa, nel 1975, contro 13,1 divorzi tra chi si era sposato civilmente).

In crisi già dopo tre anni. Il picco delle separazioni si registra fra il terzo e il quinto anno di matrimonio (come dire che alla classica crisi del settimo anno non si fa nemmeno in tempo ad arrivare). E non ci si lascia più per colpa, ma per intolleranza reciproca, e consensualmente: la stragrande maggioranza dei divorzi è concessa a seguito di domanda congiunta dei coniugi, con valori che passano dal 69,4 per cento del 1995 al 78,2 del 2005.

Cambia la famiglia. Dall'aumento delle separazioni scaturisce l'incremento delle famiglie monogenitoriali e dei figli affidati: secondo i dati Istat, il numero dei minori affidati dopo una separazione è pari nel 2004 a 64.292. In oltre la metà delle separazioni (52,9 per cento) è presente almeno un figlio minore; nell'80 per cento dei casi, è la madre che ottiene l'affidamento, mentre si rileva una crescita costante degli affidamenti congiunti, che arrivano nel 2004 al 12,7 dei casi di separazione e al 10% dei divorzi.

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giovedì, novembre 02, 2006

QUI JUVE: ecco le prime immagini della

NUOVA TRIADE!!!






Ragazzi non è un montaggio, è tutto vero... questi due raffinati ed eleganti gentiluomini sono proprio i due che accompagnavano Lapo in tribuna d'onore durante la festa per i 109 anni della Juve... la realtà supera la fantasia.


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Due fatti del giorno (Copyright Disint) 1 Novembre 2006:


Vi sottopongo 2 fatti che particolarmente mi hanno colpito nella giornata di ieri 1 Novembre ricorrenza dei Santi confidando che ciascuno di voi commenti quello che ritiene più importante (o anche tutti e due) :

1) In uno zoo di un luogo a me strappato dalla memoria un elefante ha dimostrato di riuscire a riconoscersi allo specchio (solo alcune specie di primati e i delfini sono in grado di farlo) toccandosi ripetutamente con la proboscide un cerotto che era stato attaccato sulla sua fronte.
N.B.:Un essere umano comincia a riconoscersi allo specchio non prima dei due anni di età.

2) Storie di Napoli dilaniata dalla criminalità, solito sipario di politici che commentano e Calderoli, cercando di tenere a freno la tensione dilagante definisce Napoli:"Una fogna da bonificare".

P.S.: Ho appositamente cercato di mantenere le notizie a livello di cronaca senza commenti personali...


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